Riccardo III è stato uno dei pochissimi testi che ho fatto su commissione, perché l’ha scelto Gassman, la proposta me l’ha fatta lui, forse su consiglio della sua ex moglie Nora Ricci. Riuscì proprio bene: c’era un cast fantastico, ci fu anche lì della gente che s’infuriò. Ma se la gente s’arrabbia, va pure bene…
Se lo scenografo è un artista come Mario Ceroli, la cosa migliore è usare le sue opere e non costringerlo a concepire una scenografia, che non è il suo mestiere. Per esempio, nel caso di Riccardo III, Ceroli aveva già fatto quella scala e quelle sagome. Con gli architetti è più difficile perché l’architettura, già di per sé, tende a essere vincolante, condizionante. Faccio un esempio. Nei miei spettacoli spesso le scene si muovono. Il motivo non è perché è bello far muovere il palcoscenico ma perché, probabilmente, siamo condizionati dal cinema, ed è importante che nel campo visivo ci sia solo ciò che serve in quel momento e che vada via quando non serve più.
Per quel Riccardo III torinese, Ronconi non chiama uno scenografo ma utilizza le sculture di ferro e legno di Mario Ceroli, creando una claustrofobica scatola scenica di primitiva potenza (il regista progetta anche ingombranti costumi “materici”, dal fascino primitivista, che non potranno però essere utilizzati dagli attori). Sulla scia di Jan Kott – anche se per Ronconi i classici non possono certo essere banalmente “nostri contemporanei” – in scena campeggia “la grande scala del potere”; alla fine il sovrano “muore non ucciso da nessuno, in una battaglia che non ha luogo, travolto dall’apparire di enormi manichini di legno senza spessore, simbolo del Grande Meccanismo della storia.
Franco Quadri
"La politica del regista", Il Formichiere, 1980, pp. 450-451