dal Patalogo 22 (Ubulibri, Milano, 1999)
per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri
Carissimi artisti, è stata una magnifica sinfonia. Dall'assolo al minuetto, dall'andante moderato all'adagio, all'adagio sostenuto, allo scherzo, all'allegro ma non troppo (quando si ride per rintuzzare la commozione), al rondò finale, quando girando in tondo non si sapeva più chi era di là dallo specchio, ci avete fatto vivere una delle più belle musiche teatrali di sempre. I solisti sono stati magnifici, i cori entusiasmanti, le luci e le scene avevano la plasticità perfetta di quando si sogna. E la bacchetta magica di Luca era un filo d'argento che dirigeva perfino i nostri sguardi. In tutta questa musica la mia non è una sviolinata, ma la semplice nota di un'armonica a bocca. Lisbona vi ha amato, e io con lei.
Un saluto affettuoso e grato dal vostro Antonio Tabucchi.
Nella messinscena di Questa sera si recita a soggetto uno dei pezzi forte è l'inizio: l'azione parte dalla platea, in sala gli spettatori rumoreggiano, il presupposto della finzione è che non vi sia finzione. Ronconi prima di cominciare, spazza via questa paccottiglia: la giudica, con ogni evidenza, non più modernità, ma modernariato. Quelle poltrone là, sulla scena, davanti a un sipario chiuso, preliminarmente ci dicono che tutto è tornato al suo posto, tutto è in ordine, il teatro è teatro, la vita vita.
Franco Cordelli
«Corriere della Sera»
9 maggio 1999
In principio, dunque, c'è il testo: di straordinaria tenuta drammaturgica, quasi l'autore avesse deciso di inscenare il teatro nel teatro per sbarazzarsene. Perché il mèlo della banale vicenda di corna, gelosia retrospettiva e disperazione domestica che ne è alla base s'impone suo malgrado sulle bizze del dottor Hinkfuss, parodia del regista demiurgo che ne orchestra la messinscena, e sull'ammutinamento degli attori che devono rappresentarla. Ma proprio questo secondo livello della trama è quello che garantisce lo spazio, critico e scenico, alla figura del regista. Non è un caso, quindi, che l'Hinkfuss dell'ottimo Massimo Popolizio, coi capelli sbiancati e la recitazione da manichino biomeccanico, somigli a uno Strehler ronconizzato, capitato chissà come nel gabinetto del dottor Caligari.
Roberto Barbolini
«Panorama»
28 gennaio 1999
Il dottor Hinkfuss, 'direttore' in conflitto con la sua troupe alla quale vuole imporre un testo da improvvisare li per li, ma seguendo tirannicamente i propri criteri, ha i capelli incanutiti e certe mosse del regista, a cui assomma però un abbigliamento alla Strehler e l'accento tedesco di Max Reinhardt, storico interprete dello scrittore di Agrigento. Vuole insomma raffigurarci un regista demiurgo da attaccare per le sue pose, anche se alla fine la spunterà. E Massimo Popolizio, godibile ma alla lunga un po' rallentante, troppo parodistico per diventare un vero personaggio, svalutando i propri blablabla, costringe gli attori da lui diretti nella finzione a una recitazione formalisticamente 'ronconiana' quale non vedevamo da anni.
Franco Quadri
«La Repubblica»
10 dicembre 1998
Il dottor Hinkfuss è il dittatoriale 'direttore' che vuole strapazzare autore del testo e attori, e si rivela un'altra occasione straordinaria per Massimo Popolizio per creare una figura indimenticabile, 'costruttiva' e temeraria, invadente e 'geniale', in cui sommare caratteri e tic di un intero mestiere: con le debolezze e le smargiassate vestite a lutto di tante generazioni di registi, da quelli 'alla tedesca' alle primedonne vezzose, dai mimetici agli immedesimativi, fino ai geni tout court, di inappellabile artisticità.
Gianfranco Capitta
«Il Manifesto»
11 dicembre 1998
Ha quindi impresso una carica marcatamente ironica, quasi lividamente parodistica, alla figura carismatica del dottor Hinkfuss, che un incontenibile Massimo Popolizio trasforma in una sorta di macchietta gelidamente farneticante, comicamente stilizzata che trascina nel suo vortice di sarcasmo anche gli altri personaggi, prima tra tutti la signora Ignazia dell'eccellente Paola Bacci, efficacissima nel conferire un che di sapientemente sgangherato alle rivendicazioni dell'attrice caratterista. Ma la presenza veramente chiave sia del testo che dello spettacolo è sotto vari aspetti il marito dell'Ignazia nonché padre delle ragazze, il patetico signor Palmiro detto Sampognetta, accoltellato a morte per aver difeso una chanteuse del cabaret. Nel momento in cui Sampognetta - interpretato con stralunato estro grottesco da un irresistibile Vittorio Franceschi - prende a girare per la scena col volto pallido e il ventre coperto di sangue lamentando che gli è stato rovinata l'entrata, allora all'improvviso percepiamo in modo assoluto e definitivo un tema assai caro a Ronconi in questi anni, quello della 'morte della tragedia', dell'impossibilità del teatro moderno di cogliere secondo i vecchi codici gli aspetti dolenti o feroci dell'animo umano.
Renato Palazzi
«Il Sole 24 Ore»
13 dicembre 1998