[In «Medea»] A segnare il passaggio da una situazione a un’altra, a ribadire un’idea di scorrimento continuo, c’erano dei pannelli di rete di ferro, perpendicolari alla ribalta. Una figura, questa del passaggio, che c’era in «Utopia», c’era nel «Don Carlo» della Scala, c’era, come riproduzione di tanti giorni uguali, nell’«Anitra selvatica», c’era – legata all’evolversi dei fatti storici – nelle Carmelitane.La stessa idea di movimento stava alla base di un altro spettacolo, il «Pluto» di Aristofane, che ho messo in scena nel 1985 a Epidauro, su invito di Melina Mercouri, allora ministro della Cultura ellenico, che mi aveva chiesto di pensare a qualcosa da rappresentare all’interno delle manifestazioni per Atene Capitale europea della cultura. Un lavoro pour la Patrie, diceva: e infatti lavorai realmente per la patria, cioè con pochissimi soldi. Al centro di «Pluto» era possibile ritrovare un altro volto dell’utopia aristofanesca che qui si concretizzava nel desiderio di maggiore giustizia nella distribuzione delle ricchezze. Dunque secondo una chiave che poneva in primo piano proprio il rapporto esasperato con il denaro in una società contadina: un universo costruito su tremilacinquecento canne, a fare da pavimento, ondeggiante e graffiante distesa, dentro il quale, vestiti secondo una mediterranea quotidianità contadina, capitombolavano, sgusciavano, si acquattavano gli attori. Un realismo analitico, che si rispecchiava in un melodramma agreste, dove si contrapponevano, in continuo movimento, povertà e ricchezza, austerità e consumismo, che si riflettevano, a loro volta, nel movimento di piattaforme mobili, su binari in mezzo alle canne, che innalzavano a mezz’aria attori e portali, letti e automobili.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 241-243