Nell’ "Orestea" il rifiuto dell’univocità si strutturava intorno alla domanda su come si potessero dire quelle parole, mettendosi fuori da una tradizione di continuità. Nulla di più lontano dalla voglia di fare un Eschilo nostro contemporaneo, come non avevo voluto fare uno Shakespeare nostro contemporaneo, ma un Wilcock nostro contemporaneo. Il rifiuto dell’interpretazione è stato il punto di partenza di quest’Orestea che era pensata in tre momenti diversi: quello più arcaico, quello più vicino a noi, quello avveniristico. All’interno di questi tre momenti si è lavorato in quattro direzioni, come in un gioco dei quattro cantoni: il momento in cui era possibile rintracciare un’Orestea, dunque una sapienza mitologica non ancora codificata; il momento in cui è stata scritta; il momento in cui si trasmette senza sapere cosa sia, come al tempo dei copisti medioevali, e il momento in cui qualcosa, di cui si è perduta la cognizione, viene riproposto con altri contenuti. Agli attori queste ipotesi sono state date come punti di orientamento intorno ai quali strutturare il loro lavoro: insomma uno spettacolo frammentario con i diversi elementi che si orientavano verso questi quattro cantoni, in modo centrifugo, per poi riassemblarsi nei momenti corali della rappresentazione.
Per l’ "Orestea" si è cominciato a provare e poi si è pensato a una struttura scenica nella quale inglobare anche il pubblico. Abbiamo inventato così un vasto piano rettangolare di legno, oscillante sul suo asse trasversale e manovrato da sotto, a vista, con un piccolo argano. Gli spettatori stavano sui tre lati, tutt’intorno, in tre gallerie sovrapposte. Sul fondo un’alta parete di legno poteva aprirsi completamente o mostrare una scala; mentre due montacarichi calavano dall’alto sul piano principale, offrendo spazi all’azione, ma, soprattutto, mutando in continuazione l’insieme. Una verticalità molto forte in un ambiente di appena 11-12 metri quadri.
Fuori da qualsiasi tradizione scenica, da qualsiasi interpretazione totalizzante, ogni verso si interrogava sulla sua legittimità. E questo continuo interrogarsi, questo smarrimento di fronte a un materiale difficilmente comprensibile senza il sussidio del commentario, diventò piano piano il punto di partenza del lavoro con gli attori, a partire dai primi versi – “Questo è il decimo anno da quando è cominciata la guerra di Troia...” – e cercando di fare piazza pulita di quanto potevamo sapere.
Piano piano lo spettacolo ha cominciato a strutturarsi, a organizzarsi come un racconto proiettato in epoche diverse: "Agamennone" molto preistorico, "Coefore" naturalistiche, "Eumenidi" avveniristiche: la tragedia come uno spaccato, una sedimentazione, la tensione diacronica e sincronica. E gli oggetti dentro lo spettacolo – un piccolo fuoco, della terra, una sfera che gira impazzita, dei reperti come mani e piedi – riproponevano quest’idea in modo talvolta ironico, talvolta educativo, qualche volta con grande libertà, qualche volta con riferimenti al mito e alla tradizione.
La grande nave di Agamennone su un trespolo, la statua di pane di Ifigenia che veniva spezzata e distribuita in un rito sacrificale, che ricordava le antiche funzioni tragiche, gli emisferi dei mappamondi, le alchimistiche sfere di ferro con dentro fiammelle: e poi i cori, letti a frammenti su vecchi libri e spartiti, o battuti a macchina da dattilografe ieratiche come vestali, o interrotti dagli interventi di auguri e indovini in frac o in toilette da sera, che traevano auspici da cappelli a cilindro, come i prestigiatori, i manichini senza volto, che si aggiravano per la scena durante le Eumenidi e che, insieme alle sagome senza testa appese sullo sfondo, ricordavano l’Areopago, il lettino da ospedale, dove Oreste attendeva il responso e dove, come un pupazzo, crollerà Apollo...
La tragedia come uno spaccato, una sedimentazione di parole solenni e di morte vestigia. Ovvio che la scelta cadesse su una recitazione antipsicologica, dall’esasperante sfaccettatura delle frasi, una segmentata scansione, che intendeva esprimere la fredda furia, l’ancestrale demenza, il balbettamento del mito, per una vicenda ormai indecifrabile, da interpretare forse solo attraverso l’emozione antropologica.
C’era in questo spettacolo un andare e venire continuo tra personaggi e spettatori che teneva conto di come, all’interno della struttura tragica, il coro non potesse escludere gli spettatori, in una commistione tra presente e passato. Insomma c’era tutto quello che del passato sappiamo; ma accanto alla documentazione c’era anche posto per l’illazione, per l’ipotesi. Agli attori che recitavano nell’ "Orestea" si chiedeva proprio di sapere restituire l’idea di un viaggio dentro un personaggio. Peccato che proprio l’attore, che, sulla carta, sembrava il più giusto – Glauco Mauri – si sia lasciato irretire dall’idea di “interpretare” Oreste. Tant’è che lo perdemmo per strada e a Spoleto, nella ripresa del 1973 voluta da Romolo Valli, c’era Umberto Orsini.