Orestea

Autore:   Eschilo
Traduzione:   Mario Untersteiner

Scene e costumi:   Enrico Job
Musiche:   Myriam Acevedo


Personaggi - Interpreti:
Scolta - Marzio Margine
Clitemnestra - Marisa Fabbri
Araldo - Piero Di Iorio
Agamennone - Massimo Foschi
Cassandra - Mariangela Melato
Egisto - Sergio Nicolai



Personaggi - Interpreti:
Oreste - Glauco Mauri
Pilade - Massimo Foschi
Elettra - Claudia Giannotti
Clitemnestra - Marisa Fabbri
Egisto - Sergio Nicolai



Personaggi - Interpreti:
La Pizia, Sacerdotessa - Barbara Valmorin
Apollo - Massimo Foschi
Oreste - Glauco Mauri
Clitemnestra - Marisa Fabbri
Prima Erinni - Liù Bosisio
Seconda Erinni - Grazia Marescalchi
Terza Erinni - Myriam Acevedo
Atena - Anna Nogara


Produzione:   Cooperativa Tuscolano


Prima rappresentazione
Filmskijgrad Atelier 3 (BITEF), Belgrado
20 settembre 1972

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Nell’ "Orestea" il rifiuto dell’univocità si strutturava intorno alla domanda su come si potessero dire quelle parole, mettendosi fuori da una tradizione di continuità. Nulla di più lontano dalla voglia di fare un Eschilo nostro contemporaneo, come non avevo voluto fare uno Shakespeare nostro contemporaneo, ma un Wilcock nostro contemporaneo. Il rifiuto dell’interpretazione è stato il punto di partenza di quest’Orestea che era pensata in tre momenti diversi: quello più arcaico, quello più vicino a noi, quello avveniristico. All’interno di questi tre momenti si è lavorato in quattro direzioni, come in un gioco dei quattro cantoni: il momento in cui era possibile rintracciare un’Orestea, dunque una sapienza mitologica non ancora codificata; il momento in cui è stata scritta; il momento in cui si trasmette senza sapere cosa sia, come al tempo dei copisti medioevali, e il momento in cui qualcosa, di cui si è perduta la cognizione, viene riproposto con altri contenuti. Agli attori queste ipotesi sono state date come punti di orientamento intorno ai quali strutturare il loro lavoro: insomma uno spettacolo frammentario con i diversi elementi che si orientavano verso questi quattro cantoni, in modo centrifugo, per poi riassemblarsi nei momenti corali della rappresentazione. Per l’ "Orestea" si è cominciato a provare e poi si è pensato a una struttura scenica nella quale inglobare anche il pubblico. Abbiamo inventato così un vasto piano rettangolare di legno, oscillante sul suo asse trasversale e manovrato da sotto, a vista, con un piccolo argano. Gli spettatori stavano sui tre lati, tutt’intorno, in tre gallerie sovrapposte. Sul fondo un’alta parete di legno poteva aprirsi completamente o mostrare una scala; mentre due montacarichi calavano dall’alto sul piano principale, offrendo spazi all’azione, ma, soprattutto, mutando in continuazione l’insieme. Una verticalità molto forte in un ambiente di appena 11-12 metri quadri. Fuori da qualsiasi tradizione scenica, da qualsiasi interpretazione totalizzante, ogni verso si interrogava sulla sua legittimità. E questo continuo interrogarsi, questo smarrimento di fronte a un materiale difficilmente comprensibile senza il sussidio del commentario, diventò piano piano il punto di partenza del lavoro con gli attori, a partire dai primi versi – “Questo è il decimo anno da quando è cominciata la guerra di Troia...” – e cercando di fare piazza pulita di quanto potevamo sapere. Piano piano lo spettacolo ha cominciato a strutturarsi, a organizzarsi come un racconto proiettato in epoche diverse: "Agamennone" molto preistorico, "Coefore" naturalistiche, "Eumenidi" avveniristiche: la tragedia come uno spaccato, una sedimentazione, la tensione diacronica e sincronica. E gli oggetti dentro lo spettacolo – un piccolo fuoco, della terra, una sfera che gira impazzita, dei reperti come mani e piedi – riproponevano quest’idea in modo talvolta ironico, talvolta educativo, qualche volta con grande libertà, qualche volta con riferimenti al mito e alla tradizione. La grande nave di Agamennone su un trespolo, la statua di pane di Ifigenia che veniva spezzata e distribuita in un rito sacrificale, che ricordava le antiche funzioni tragiche, gli emisferi dei mappamondi, le alchimistiche sfere di ferro con dentro fiammelle: e poi i cori, letti a frammenti su vecchi libri e spartiti, o battuti a macchina da dattilografe ieratiche come vestali, o interrotti dagli interventi di auguri e indovini in frac o in toilette da sera, che traevano auspici da cappelli a cilindro, come i prestigiatori, i manichini senza volto, che si aggiravano per la scena durante le Eumenidi e che, insieme alle sagome senza testa appese sullo sfondo, ricordavano l’Areopago, il lettino da ospedale, dove Oreste attendeva il responso e dove, come un pupazzo, crollerà Apollo... La tragedia come uno spaccato, una sedimentazione di parole solenni e di morte vestigia. Ovvio che la scelta cadesse su una recitazione antipsicologica, dall’esasperante sfaccettatura delle frasi, una segmentata scansione, che intendeva esprimere la fredda furia, l’ancestrale demenza, il balbettamento del mito, per una vicenda ormai indecifrabile, da interpretare forse solo attraverso l’emozione antropologica. C’era in questo spettacolo un andare e venire continuo tra personaggi e spettatori che teneva conto di come, all’interno della struttura tragica, il coro non potesse escludere gli spettatori, in una commistione tra presente e passato. Insomma c’era tutto quello che del passato sappiamo; ma accanto alla documentazione c’era anche posto per l’illazione, per l’ipotesi. Agli attori che recitavano nell’ "Orestea" si chiedeva proprio di sapere restituire l’idea di un viaggio dentro un personaggio. Peccato che proprio l’attore, che, sulla carta, sembrava il più giusto – Glauco Mauri – si sia lasciato irretire dall’idea di “interpretare” Oreste. Tant’è che lo perdemmo per strada e a Spoleto, nella ripresa del 1973 voluta da Romolo Valli, c’era Umberto Orsini.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 224-229

Rassegna Stampa

La “monumentale” Orestea: sette ore di viaggio alle origini della tragedia, alla ricerca del "rito perduto". [...]
Motivo essenziale della tragedia è proprio il progressivo trasformarsi del mito e del senso dei miti, sia all’interno dell’opera di Eschilo, che nella relazione tra questa e le diverse epoche. [...]
Bloccata al debutto romano “per la pretesa insicurezza del complesso di ascensori incorporato”, l’Orestea trionfa al Bitef di Belgrado nell’estate del 1972, dove vince il primo premio ex aequo con il Torquato Tasso diretto da Peter Stein, superando Yerma di Victor García e il Sogno di una notte di mezza estate di Peter Brook: Ronconi è in prima fila tra gli artisti che in quegli anni stanno rivoluzionando la regia e l’idea stessa di teatro. Come in tutti i miei precedenti lavori, invece di puntare su una visione univoca del testo, preferisco organizzare lo spettacolo (e del resto è la lettura del testo stesso a suggerirlo), sulla compresenza di diverse interpretazioni: l’opera di Eschilo non viene considerata un blocco monolitico, ma, secondo il principio di discontinuità, un insieme disuguale che dia luogo a uno spettacolo scrupolosissimo, rispettoso del testo stesso ma fatto di tanti prismi, di dissimili frammenti, destinati a ricostruirsi in un tutto alla fine nella mente dello spettatore.
Questa attenzione puntuale al testo – o meglio, a ogni singola battuta e parola, contro una lettura ispirata a un senso unificante dell’intera opera – è da sempre una delle caratteristiche del suo approccio al teatro di interpretazione. Il regista non è più il garante della coerenza e dell’organicità dell’opera, un partito preso destinato inesorabilmente a risolversi in un allestimento in cui i diversi piani (recitazione, gesti, scena, costumi, luci, musiche, luci, eccetera) vengono più o meno forzosamente armonizzati in una cornice unitaria. Al contrario, il regista e i suoi attori amano lavorare sulle zone d’ombra, sulle contraddizioni interne, sulle linee di frattura del testo e della rappresentazione, cercando di mantenere viva e pulsante la molteplicità (contraddittoria, irrisolta) dei significati. Come spesso accade in Ronconi, una lettura di questo genere impone quasi immediatamente l’invenzione di uno spazio; o meglio, di una serie di spazi. L’Agamennone è intuito in uno spazio ancora magmatico, una zona cosmica, pressoché siderale; nelle Coefore l’azione si restringe entro l’ambito delle mura di una casa; mentre le Eumenidi vanno a situarsi nelle vie di una ipotetica città, preistorica come futura.
Franco Quadri
"Il rito perduto", Einaudi, 1973

dal "Patalogo 22"

E' l'ora zero per i registi sulla quarantina che rivoluzioneranno lo spazio teatrale negli anni '70 e tendono a confrontarsi con le origini, quando il teatro aveva una necessità. Ronconi punta sui greci e comincia dall'Orestea, affrontandola come un testo di cui s'è perduta ogni tradizione nterpretativa: gl'interpreti all'inizio vagano in un mondo informe simile alla preistoria del 2001 di Kubrick, balbettando brani di parole di cui non afferrano più il senso. Il fluire del tempo li porta da Agamennone in uno spazio ancora magmatico, una zona cosmica quasi siderale, in cui il coro disperso è protagonista assoluto e i personaggi assumono consistenza divina, alle Coefore ambientate naturalisticamente dentro le mura di casa, mentre le Eumenidì si situeranno in un'ipotetica città preistorica o futura, di fronte a una classe politica socialdemocratica che succede allo stato teocratico e poi al matriarcato oligarchico. Attraverso il sillabare stentato di un linguaggio ignoto e aspro che trova la sua più alta espressione nella Clitemnestra di Marisa Fabbri, in un tempo chilometrico (oltre otto ore) che affida la comunicazione a un linguaggio subliminale, emerge implacabile il senso del tempo, mentre trascorrono le civiltà e la nuova religione di Apollo entra in Grecia portata dalla sacerdotessa Cassandra (Mariangela Melato). Il pubblico si trova in stretto contatto con l'azione che però non potrà mai abbracciare globalmente nel complesso impianto ligneo quadrangolare creato da Enrico Job: tre lati di gradinate attorno a un doppio piano scenico in movimento con un'altalena bilanciabile al piano inferiore e un doppio di ascensori che lo collega a quello sovrastante; sul quarto lato s'apre una grande porta alla quale s'affaccerà la ripida scala per la discesa di Clitemnestra, preceduta da una calata di terra, e da cui alla fine si scorge una simbolica Atene popolata di uomini manichini. Sarà l'audacia del contenitore a provocare difficoltà burocratiche alla circolazione in Italia dello spettacolo nato il 20 settembre al Bitef di Belgrado e dovunque acclamato all'estero.
Franco Quadri