Sono tante strofe, una inanellata nell’altre: in qualche modo verrebbe da cantarla. Contiene ritorni continui, vere e proprie formule celate all’interno del discorso, come nella poesia epica. Quel che in qualche modo dobbiamo cercare di fare è imprimere un’aria, un andamento naturale a una forma che naturale non è. Una ballata non segue l’andamento cronologico, lineare, nella narrazione di un evento. Ed è quanto accade qui: talvolta si parte dalla coda, si ritorna al centro, si conclude come si è cominciato, in un continuo andirivieni. Non è una forma naturale per il teatro: a teatro le scene si giustappongono con un andamento rettilineo, dall’inizio alla fine. Come si fa a conferire naturalezza a ciò che naturalezza non ha? Per come la intendiamo comunemente, la naturalezza, a teatro è ad esempio quella del colloqui, ma questi sono personaggi che non possono colloquiare perché ognuno di loro è spesso immerso in una temporalità diversa da quella degli altri […]. E’ uno degli aspetti che mi hanno più colpito di questa drammaturgia: l’impossibilità di stare dentro un percorso segnato. Qui si tratta esattamente non di recitare un ruolo, bensì di abitare una zona narrativa che ha a che fare con un personaggio. E’ come se Henry, Emanuel, Mayer, Philip e tutti gli altri personaggi non esistessero in scena per una loro psicologia o per un loro “vissuto”, ma solo per comporre il mosaico della narrazione complessiva, alla quale danno i loro apporto sotto forma di discorsi diretti (pochi) e di visioni.