Se ancora non lo avete fatto, prendete un treno e andate a Prato per questo spettacolo. Ne vale la pena. Vi troverete di fronte alla più considerevole esperienza scenica che può offrire oggi il nostro teatro. È il punto che segna lo spartiacque fra la Tradizione e l'Avanguardia.
Italo Moscati
«L'Europeo»
maggio 1978
Qui veramente siamo a una dimensione nuova di teatro, che lo spiraglio della sperimentazione lascia intravedere, inquietante, enigmatica, come il brano che, a un certo punto di questo spettacolo, l'attrice recita aldilà di una porta dai battenti socchiusi; l'arco scenico, la misura della nostra visione sono scanditi da quella stretta fessura. L'autentica avanguardia, in quanto esplorazione di territori sconosciuti fatta con gli strumenti della professionalità interpretativa e della preparazione critica, è qui.
Roberto De Monticelli
«Corriere della Sera»
21 giugno 1978
Aldilà del fatto, verificabile solo con il tempo, che Le Baccanti generino o no filiazioni e imitazioni, come è avvenuto con l'Orlando furioso, e aldilà dei possibili risultati estetici, questo spettacolo si impone, quasi con il valore di un saggio teorico, come una tappa di grande importanza nella ricerca sulla comunicazione teatrale. Due almeno sono i capitoli di questo saggio in forma di spettacolo: il modo di usasare lo spazio come un elemento della sintassi teatrale e l'analisi di un diverso rapporto tra testo e spettatore attraverso la mediazione dell'interprete. Per il quale la messinscena delle Baccanti individua infatti un ruolo totalmente inedito.
Rita Cirio
«L'Espresso»
16 aprile 1978
Non si può prescindere dal fatto che questo spettacolo nasce all'interno di un laboratorio di ricerca teatrale, unico in Italia a coinvolgere in così ampia misura gli Enti locali, e quindi non è finalizzato al normale circuito teatrale, ma costituisce piuttosto una fase della ricerca aperta a un pubblico selezionato, non certo (o non soltanto) al pubblico di Prato. In realtà spettacoli come questo non servono molto a sollecitare una partecipazione più vasta e meno passiva del territorio al mondo della cultura, e nemmeno a stimolare la creatività del pubblico medio. Ma è anche evidente che non si propongono niente di tutto questo.
F.M.
«Fronte Popolare»
23 luglio 1978
Mentre procede per sequenze quasi cinematografiche, e dipana le stazioni di un rito alieno da ogni religiosità, questa rappresentazione negata s'incentra comunque sul rapporto ritrovato con un'attrice creatrice: offrendosi allo scambio cogli spettatori, dialogando coi pochi oggetti significanti che la circondano, seguendo le traiettorie luminose che spezzano l'oscurità, raddoppiandosi in uno specchio — Penteo e Dioniso nello stesso tempo, eppure nessuno dei due, soltanto se stessa nell'atto di demistificare ogni canone di recitazione — Marisa Fabbri raggiunge in assoluto il massimo risultato che si sia visto sulle scene da moltissimi anni in qua.
Franco Quadri
«Panorama»
26 marzo 1978
La costante della recitazione è un furore dionisiaco, liberatorio, che indulgendo alla ripetizione autorizza interpretazioni di stampo psicanalitico che farebbero la gioia di un critico lampeggiante come Boby Bazlen, cui si deve il successo dell'Adelphi, casa editrice ormai divenuta un preciso punto di riferimento culturale.
Gian Antonio Cibotto
«Il Gazzettino»
18 giugno 1978
Occorre attendere il completamento del lavoro, non tanto per condensare un giudizio di qualità, ma per individuare bene i termini razionali di tale riduzione a monologo.
Odoardo Bertani
«Avvenire»
8 marzo 1978
Di Marisa Fabbri, e della sua stupenda 'performance', che la porta a sostenere da sola tutte le parti di Le Baccanti di Euripide, per sale e anditi del Collegio Magnolfi, facendo partecipare ventiquattro persone per volta a qualcosa di misteriosofico, di questo suo metamorfosizzarsi con suprema mimica evocativa, sino a costituirsi da sola in tragedia vissuta e ripetuta, e favorendo l'ipotesi di un pubblico non ipnotizzato, ma a tratti dubbioso di non essere incorso in qualcuna delle colpe che il mito distribuisce, abbiamo altra volta detto la nostra stupefatta ammirazione.
Odoardo Bertani
«Avvenire»
21 giugno 1978
Ronconi rifugge di proposito da questi accostamenti devianti. Vuole, paradossalmente, ridare alla tragedia greca tutta la sua 'estraneità': ma non perché ci sembri distante e impervia; al contrario, perché ci parli con ritrovata immediatezza e nella integrità del suo messaggio. Vuole, in altri termini, restituircela come rito. Per questo, riduce drasticamente gli spettatori a un piccoIo nucleo (metafora, senza facili demagogie, di una collettività partecipe e compatta); moltiplica, all'opposto, lo spazio scenico, in un calcolo sapiente di immagini speculari; congloba in un solo interprete tutti i ruoli; e infonde in questo interprete un modulo di recitazione che, provvisoriamente, vorrei definire 'astratto'.
Guido Davico Bonino
«La Stampa»
22 aprile 1978
Il 'diverso' che Dioniso (o Bacco) incarna è dentro di noi: vano espediente il rinserrarlo nelle prigioni, nei manicomi, nei luoghi di esclusione e di reclusione; sempre si sfrenerà, e darà l'assalto al palazzo della ragione, non per conquistarlo, bensì per distruggerlo. L'ultima immagine dello spettacolo è un muro di mattoni sfaldato, simile agli altri muri che a un certo punto bloccano le porte alle spalle degli spettatori, simile anche ai muri che abbiamo visto, in funzione analoga, nella Torre di Hofmannsthal.
Aggeo Savioli
«L'Unità»
22 giugno 1978
L'entrare e uscire dello spettatore in questi spettacoli di Ronconi è diverso dal solito. È come se, al rientrare dall'intervallo, trovaste non la scena, ma tutto cambiato. Nulla è mai come lo avevate lasciato. La tensione fra il dentro e il fuori è straordinaria. Nel Calderon di Pasolini il luogo dell'azione è il dentro di un luogo concentrazionario, da dove il prigioniero tende sempre a uscire. L'attrazione è la porta, la speranza è il luogo lontano che sta, sempre, fuori. Nelle Baccanti, splendido one-woman show di Marisa Fabbri, c'è un continuo spalancare di porte verso il fuori, verso l'ebbrezza, e un continuo erigere muri dentro contro le novità che vengono da fuori; sorgono continuamente dietro di noi muri di mattoni, muraglie cinesi a rinchiuderci: fino a che l'ultima muraglia non crolla nel terremoto del nuovo che vince.
Gerardo Guerrieri
«Il Giorno»
20 giugno 1978
Tutto è lusso qui, tutto è raffinatezza, anche la povertà. Nella sala delle feste dell'orfanotrofio - ridipinta nel colore marrone che deve essere il suo - ventiquattro spettatori sono seduti contro un muro. Di fronte, una porta ritagliata in una cornice scenica di compensato dalle tinte morte, derisoria e commovente con i suoi disegni naifs. Tra i due nient'altro che il pavimento liscio. Dalla porta entra una donna alta, troppo bionda, con un vestito nero informe. Racconta le Baccanti, non come se conoscesse la tragedia, ma come se la scoprisse, interrogando gli enigmi oggi posti dal testo, e portando le risposte di un corpo ai fatti della passione e dell'angoscia. Senza identificarsi coi personaggi, Marisa Fabbri s'impregna della tragedia, la ricostituisce stazione per stazione, trascina nel suo percorso. Una porta viene superata, la prospettiva cambia. I corridoi sembrano tunnel senza fine, e poi stretti cunicoli, e poi volte di cattedrale. La voce rimbomba e poi soffoca. È il viaggio d'Alice alla ricerca di se stessa, sul suo cammino incontra delle immagini e i loro riflessi invertiti - così Dioniso/Penteo - e Agave, la madre perduta... Viaggio ingannatore: riporta nella sala delle feste, le cui uscite appaiono murate - e sulla scena crolla un muro di mattoni -, riporta nello stesso corridoio, dove la percezione si trasforma. Marisa Fabbri è la continuità tra laleggenda antica ripresa da Euripide e gli spettatori presenti nell'orfanotrofio abbandonato di Prato, in questo mese di giugno 1978. Aldilà della favolosa performance, si assiste a una sorta di fenomeno medianico e vi si partecipa. Marisa Fabbri non solo sì fa carico del mito e dei suoi echi, ma anche della reazione - che rimanda a se stessa - del pubblico poiché lo chiama a seguire la sua reazione al testo.
Colette Godard
«Le Monde»
29 giugno 2013
E si capisce che la forza di questo spettacolo sta tutta nelle emozioni che suscita mentre lascia largo spazio all'arbitrio di qualsiasi lettura, qualsiasi interpretazione: ma il lavoro di Marisa Fabbri sta in piedi in ogni caso; come è di grande coerenza, anche se un po' ripetitiva (quei lettini di contenzione...) la regia di Ronconi. Scena di Gae Aulenti. E Penteo non è stato ancora sbranato.
Elio Pagliarani
«Paese Sera»
23 giugno 1978
Il classico testo di Euripide - detto da una sola attrice che si identifica con il ricevente della tragedia stessa, e mai come un 'interprete, a titolo di demistificazione del concetto di personaggio - abdica alla sua natura drammaturgica per diventare pagina di letteratura; ma poi attraverso l'enunciazione figurata acuisce il suo carattere di analisi strutturale in cui ogni parola acquista di per sé valore significante grazie anche al mutare della posizione della portatrice nello spazio, al suo entrare in rapporto con gli oggetti e al differente porsi nei riguardi degli spettatori, alla dinamica stessa del gesto.
Franco Quadri
«Lotus International»
dicembre 1977
Ci sono due interventi contrari e purtuttavia cooperanti da parte della regia: mentre lo spazio si moltiplica, costringendo lo spettatore ad assumere di volta in volta un punto di vista diverso rispetto all'azione, le differenti ottiche dei personaggi vengono compresse in un unico attore. Il risultato è una incessante contraddizione, misurata ora dall'interno ora dall'esterno dell'io protagonista: un lucidissimo, quasi geometrico, viaggio attraverso i gironi infernali del profondo, dove l'alternanza delle voci di Dioniso e del còro delle Baccanti invasate da una parte, e quella del razionale Penteo dall'altra, segnala l'ossessionante e ciclico contrapporsi dì norma e rovesciamento, ragione e follia, ordine apollineo e disordine orgiastico, o se si vuole, come insegna la moderna cultura, di 'Io' e 'Es'.
Siro Ferrone
«L'Unità»
21 febbraio 1978
Per quanto mi riguarda, da quel che ho veduto ieri sera, sono d'opinione che non solo il numerus clausus è giustificato da ragioni tecniche, ma che trovare ogni sera ventiquattro persone in grado di partecipare in modo attivo all'azione narrata e commentata da Marisa Fabbri deve essere compito arduo, a volte impossibile.
Giorgio Zampa
«Il Giornale»
18 giugno 1978
La scommessa di Ronconi è vincente anche sul suo stesso pessimismo iniziale: partiti dalla accettazione del misterioso e dell'inesplicabile in quanto tali, quello che poteva apparirci come un enigma o un reperto di epoche remote, ci si rivela come trasparente allegoria, nel momento in cui libera la sua energia. L'istituzione del rito dionisiaco non ha bisogno di spiegazioni storiche: visto nei sotterranei dell'ex orfanotrofio di Prato appare come l'omologo dell'istituzione del rito teatrale.
Renzo Tian
«Il Messaggero»
21 giugno 1978
Si potrà forse anche dire che, chi puntava sopra Ronconi come regista principe della Follia, in questa sua fase dopo l'Orestea si vede rialzare nettamente le quotazioni critiche. Soprattutto se peregrina, tra due dozzine di fruitori eletti, dietro Marisa Fabbri, per i vani dell'Istituto Magnolfi: dove le Baccanti euripidee sono monosceneggiate psicoticamente nella più clinicamente dionisiaca tra le interpretazioni possibili. Dioniso, sorretto da Dodds, è l'Es in tutto e per tutto, finalmente, e uno dei miei ventitré compagni di questa antipsichiatrica via crucis, dopo la stazione dello specchio, in cui Penteo decifra Dioniso come il suo doppio, e viceversa, mentre ci guardiamo la pluriattrice 'contenitore' che si rovescia, anima e corpo, in un cunicolo zeppo di lettini da istituzione chiusissima, mi mormora: 'Ho capito, adesso, per la prima volta, che cos'è una tragedia greca'. Stando ai patti, non devo dirlo, ma come traduttore euripideo mi concedo un lusso illegale, e sostengo che per me, davvero, ha ragione.
Edoardo Sanguineti
«Paese Sera»
14 luglio 1977
Grazie a Luca e a Marisa.