Nella «Torre» – anche questo un testo, come quello di Pasolini, costruito sulla «Vita è sogno» di Calderón – cercavamo al contrario di oggettivare il dramma nel suo rapporto con il pubblico, portandolo all’interno di un sistema teatrale dotato di scenografia, ambientazione, storia, vicenda, rapporti tra i personaggi, dove l’asse portante dell’esperimento era il racconto con le sue nove ore e mezzo di durata, in un continuo andare e venire dentro le pieghe della vicenda, che si rifletteva nel continuo andare e venire del pubblico dentro e fuori idiversi luoghi e tempi della rappresentazione, che riportavano a ciò che lì si vedeva, ma anche alla Bibbia, alla Polonia, alla «Vita è sogno», alla crisi dell’autore nel crollo dell’Austria felix... Se anche l’apparenza sembrava condurci a qualcosa di fortemente naturalistico, in realtà gli attori erano come “abitati” dalle parole che dicevano e che provenivano da un “altrove” (come la drammaturgia di Hofmannsthal, che usa un linguaggio “velato”). Questo creava una situazione di conflitto che era un po’ il doppio di quello tra Dioniso e Penteo nelle «Baccanti»: un rapporto dell’attore con le parole e le origini delle parole, con la profondità e la superficie di un avvenimento.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 167-168