dal Patalogo 28 (Ubulibri, Milano, 2005)
per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri
Grazie a Luca Ronconi, che lungo il tempo pesca e ripesca nel suo repertorio, Giovan Battista Andreini diventa non solo familiare al pubblico italiano, ma curiosamente svela una lingua teatrale molto vicina e godibile al nostro gusto dì oggi. Parole che a leggerle implicano una necessaria fatica, scoprono sul palcoscenico una vitalità, una ricchezza e un'ironia difficili da rintracciare nella nostra scrittura drammatica dei secoli seguenti.
Gianfranco Capitta
«Il Manifesto»
17 ottobre 2004
L'autore si aggira con perfetta disinvoltura nel labirinto, divertendosi a inventare nuovi trabocchetti e giravolte. Solo questo infatti gli interessa: il gioco elementare del teatro come af tabulazione qui spinta fino all'iperbole. Ed è ovviamente proprio questa possibilità di giocare ('ludere', 'spielen', 'jouer', 'to play' - le altre lingue come sapete lo mettono alla base stessa del teatro) ad affascinare il regista Luca Ronconi, che da sempre dà il suo meglio quando può concentrarsi sullo spettacolo puro, nella tonalità dominante dell'ironia. Gli spunti dell'Andreini sono gli stessi di Shakespeare, di Calderón e di tutto il teatro barocco, ma mentre gli elisabettiani o gli spagnoli, avendone scelti uno o due, li approfondiscono poi motivandoli, ovvero rendendoli umani - scavando nelle psicologie - Andreini lascia tutto in superficie, frastornando festosamente con l'accumulo. E altrettanto festosamente Ronconi lo segue, creando un allegro evento di ostentata irresponsabilità, cui può nuocere soltanto la sazietà dello spettatore.
Masolino d'Amico
«La Stampa»
16 ottobre 2004
Lungo viaggio attraverso i generi e i modi di fare teatro, La Centaura permette a Ronconi, che firma una regìa di rapinosa bellezza, di elevare all'ennesima potenza il suo gusto per il gioco teatrale: una dichiarazione d'amore per l'incantamento della scena, per la sua macchina qui come non mai usata con poetica leggerezza. Scandita come un melodramma dalle musiche scelte con pertinenza da Paolo Terni, interpretata da un foltissimo gruppo di attori tra i quali molti giovani formatisi accanto a Ronconi come in una gran bottega artistica, La Centaura trova proprio nella chiave alternativa prescelta di scoperta, intrigante ironia, un altro, importante, punto di forza.
Maria Grazia Gregori
«L'Unità»
16 ottobre 2005
Ma il suo fascino sta proprio in questo abbacinante sovrapporsi di storie, in questo crescere e tracimare di un'ebbrezza inventiva che supera di continuo i suoi confini, nonché in un fluire del verso che alterna ingegnose costruzioni poetiche a vacue escrescenze manieristiche. Si tratta, insomma, di una di quelle abnormi bizzarrie drammaturgiche che tanto attirano Ronconi, o che almeno sollecitano una delle sue due anime creative, quella più portata a un teatro-teatro, così diametralmente opposta all'altra faccia di un artista capace dell'acuminata sfida intellettuale di Infinities o delle ardite sperimentazioni tecnologiche di Lolita.
Renato Palazzi
«Il Sole 24 Ore»
17 ottobre 2005
Il variare dei moduli espressivi è esaltato dal passare dalla natura a un manicomio, a una reggia, sempre in Rodi, hi uno sfoggio di artifici teatrali, dagli scambi di persone alle agnizioni, cui si aggiunge, in questa arcadia simile a una versione controriformistica del Sogno scespìriano, una famiglia di regali centauri ai quali il regista dona spiritosi corpi di cavalli posticci su rotelle. Così Mariangela Melato, non sazia di trasformazioni, interpreta superbamente e con grande spasso sia la sorella umana che la equina, prestando la propria voce in playback alla controfigura quando le due s'incontrano. E intorno a lei, nella raffinata ambientazione un po' operistica di Margherita Palli, girano barche, cipressi, colonne, torri e dall'alto calano maghi e messaggeri, con una semplicità dinamica che si contrappone alla complicazione di una vicenda al limite della parodia, trascorrendo dal gioco al fantastico, prima di esplodere in un finale in cui muoiono proprio tutti, salvo la coppia di imberbi congiunti, un umano e una centaurina, destinati alle nozze e al potere.
Franco Quadri
«La Repubblica»
18 ottobre 2004
A oltre trentanni dal suo precedente allestimento, Luca Ronconi ha tratto da questo testo iperbolico uno spettacolo bellissimo, reggendo impavido le redini della Centaura come Ben Hur nella scena delle bighe. La scenografi Margherita Palli l'ha assecondato perfettamente con i suoi cannocchiali aristotelici, le piattaforme girevoli, le macchine di cui Ronconi è da sempre il 'deus'. (...) Superlativa la Centaura di Mariangela Melato, potente e struggente, ma anche esilarante. Come in quella profusa morte in scena che fa il verso al melodramma, ma ricorda anche Peter Sellers-Gunga Din all'inizio di Hollywood Party.
Roberto Barbolini
«Panorama»
28 ottobre 2004
Poteva, Ronconi, stupirci con effetti speciali, ma tutto sommato si è fermato all'essenza di un sobrio barocco comunque di grande impatto visivo: dalla piattaforma rotante che ospita un manicomio, premonizione del Marat-Sade di Peter Weiss, alle caravelle lignee che navigano tranquille e all'asciutto in palcoscenico, a un gran bosco di cipressi, alle grandi colonne di finto marmo nero al centro della scena racchiusa da tulle e fruibile da due lati che incorniciano una bara vitrea come quella di Biancaneve (incantevole scenografia di Margherita Palli). E naturalmente ci sono i centauri del titolo (abbigliati e bardati da Gabriele Mayer) che passeggiano e galoppano in palcoscenico con animalesca grazia e vitalità. Mariangela Melato doppiamente seduta nel titolo e nel ruolo della sorella della centaura che si presta tra l'altro a una morte differita e ironicamente prolungata come quella di Ermete Zacconi-Socrate che allungava a dismisura gli effetti della cicuta.
Rita Ciro
«L'Espresso»
4 novembre 2004
Da vedere e rivedere, da studiare e da ricordare. Anche se s'impone almeno una considerazione. Se infatti nei superbi saggi teatrali che hanno preceduto questa Centaura era leggibile in filigrana la malinconia dell'uomo di spettacolo che illuminava il nostro passato storico folto di favole sinistre, oggi il regista sembra innamorato della forma al punto da pretendere che la realtà sia un gioco.
Enrico Groppali
«Il Giornale»
18 ottobre 2004