Fedra

Autore:   Jean Racine
Traduzione:   Giovanni Raboni

Scene:   Margherita Palli
Costumi:   Carlo Diappi

Produzione:   Teatro Stabile di Torino

Personaggi - Interpreti:
Ippolito - Roberto Trifirò
Arida - Raffaella Azim
Teramene - Luciano Virgilio
Ismene - Laura Panti
Panope - Liana Casartelli


Prima rappresentazione
Teatro Metastasio, Prato
26 aprile 1984

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Io ho trovato non la Fedra di Racine, ma quella di Raboni. I problemi interpretativi sono forti e vanno a aggiungersi a quelli di come tradurre il verso raciniano prima letteralmente e poi teatralmente. Abbiamo nelle orecchie il testo aulico e melodioso di Racine, ma i nostri versi sono differenti. Dipende dalla voce degli attori l'intenzione che si dà al testo.
«La Nazione»
19 aprile 1984

L'essenziale non è la fedeltà... Fedeltà a cosa, del resto? Da noi Racine è uno sconosciuto. Gli attori oscillano tra due serie di parole. Pronunciano il testo italiano lasciando contemporaneamente agire su di loro il testo francese. Non è comodo, ma da noi è la soluzione più abituale. E mi sembra strano che in Italia nessuno abbia pensato di utilizzarla.
Intervista di Colette Godard
«Theàtre en Europe»
n. 1, gennaio 1984

Ippolito, non vorrei che fosse un atleta. Né puro. Cosa vogliono esattamente dire le sue parole: 'Il giorno non è più puro del fondo del mio cuore... '? Come se il giorno fosse puro! È questo il lavoro dell'attore: sapere cos'è la parola fondo ', 'il fondo del mio cuore ', è questo che conta. Non deve sottolineare, ma farlo diventare il suo centro di gravità. Non gli chiedo di svelare le sue intenzioni. Voglio che lasci capire questo: il giorno non è puro, e il cuore di Ippolito non è puro come pensa lui. Insomma, Ippolito si sente colpevole nei confronti di suo padre, perché vuole un figlio da Aricia. Non perché aveva rischiato di farlo cornuto. Dal canto suo, Teseo è uno che corre dietro alle ragazze, la sua morale dovrebbe essere meno repressiva. Potrebbe essere più comprensivo nei confronti di Fedra... Ovviamente non ne è cosciente. Si crede sinceramente geloso. E persuaso di dover salvaguardare il suo onore e punire chi è accusato di averlo tradito e lo fa, sulla base di una semplice calunnia.
Fedra sarebbe dunque pura?
Fedra non ha commesso l'adulterio. Non desidera Ippolito. Cerca la morte. Quando inizia la tragedia, non è felice. Di cosa parla quando evoca un desiderio proibito, e perché lo volge verso Ippolito? Alla fine, le menzogne di Enone menzogne assolutamente volontarie danno un senso alla sua colpevolezza. Una specie di realtà, come un'esca, trascina le condizioni reali dello spazio in una falsa capsula. 'Non di meno morirò, ne morirò ancora più colpevole... ' E bello. La catastrofe è morire colpevoli.
Intervista di Colette Godard
cit.

Rassegna Stampa

dal Patalogo 7 (Ubulibri, Milano, 1984) 

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Qaudri


Considerato intraducibile per la preziosità ritmica dei suoi versi e praticamente mai rappresentato in Italia in edizioni di alto livello, Racine non è nostro contemporaneo. Si consuma a distanza di anni luce la vivisezione dei sentimenti messa in atto dai suoi personaggi, gingillandosi, come con un alimento, con le ricercatezze di un linguaggio remoto, sulla scia di altre irripetibili tragedie. Forse proprio per questo un regista come Luca Ronconi, da sempre preoccupato di far rivivere nei suoi allestimenti di classici l'irrecuperabile rapporto instaurato al momento della creazione, con la sua Fedra lavora prima di tutto su una contaminazione temporale. Piazza questi personaggi già bifronti di fatto appartenenti a una corte secentesca per quanto situati in una mitica Grecia in un'epoca intermedia rispetto a noi, avvolti in sontuosi e stupendi funebri costumi ottocenteschi, a mimare con cura ossessiva movenze manieristiche del Grand Siècle, quasi si trattasse di restituire non l'opera, quanto una sua messinscena.
Franco Quadri
«Panorama»
21 maggio 1984
Il regista ha intrapreso a leggere il testo tra e sotto le righe, in quella 'partitura seconda' che ogni grande opera cela sotto quella letterale. Ne ha cavato tre tragedie almeno: quella del destino, che impone, senza alcuna ragione, agli individui di essere ciò che non vorrebbero (Teseo un errabondo uccisore di mostri, Fedra una regina sola, arsa da un fuoco incestuoso, Ippolito un misogino e cauto ginnasta); quella del potere, che li assoggetta alle sue torbide leggi, alle sue sfiancanti altalene (chi sarà re, se Teseo è morto, Ippolito, o il figlio di Fedra, oppure Aricia, la prigioniera ateniese di sangue reale?); e, infine, quella dell'identità personale, il contrasto in questi esseri tra l'intima 'natura' e l'esteriore 'persona' tra la loro condizione psicologica e il loro comportamento sociale, impersonato genialmente da Racine in quelle tre ombre o specchi di nutrici-precettori-confidenti che sono, per Fedra, Ippolito, Aricia rispettivamente Enone, Teramene, Ismene, vere e proprie proiezioni, nel male e nel bene, della loro insanabile dissociazione. E, infine, Ronconi ha trasposto queste tre tragedie interne alla tragedia 'prima' in qualche modo canonica, in un progetto scenico che assai finemente le fonde e le rispecchia: in quello spazio uno e trino ideato da Margherita Palli in cui l'idea di osservatorio celeste (dunque di specola del destino), di reggia con archi e colonne (recinto dunque del potere) e di sala di conversazione-confessione, dai divani severi, dalle ampie poltrone, mirabilmente convivono.
Guido Davico Bonino
«La Stampa»
11 maggio 1984
Lo spettacolo di Ronconi, su questa strada della ricerca di una misura diversa da quella dello splendore poetico e della verosimiglianza psicologica, paga qualche prezzo. Rinuncia al ritmo garantito del verso per tentarne uno più rischioso e sotterraneo, e talvolta soffre di rallentamenti e spaesamenti. Ma nell'insieme riesce, senza dichiarare tesi esplicite o attualizzazioni frettolose, a accendere sospetti e curiosità, a illuminare zone di mistero senza peraltro schiarirle fino in fondo, insomma a portarci dentro al mondo di Racine come stanza chiusa, sì, ma nella quale è possibile entrare con chiavi diverse da quelle abituali.
Renzo Tian
«Il Messaggero»
30 aprile 1984