Riversando lo scambio di coppie di Girotondo nei giorni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, che qui viene dichiarata nel corso dell'ultimo atto, La commedia della seduzione di Schnitzler si ricollega idealmente agli Ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, la famosa kermesse dentro alla cronaca degli anni bellici di Vienna, che Ronconi ha avuto a lungo in animo di allestire.
Ma in questa rappresentazione allusiva si evita il discorso politico diretto: vediamo piuttosto l'alta società mischiarsi con poeti, pittori, musicisti in un confronto continuo tra la realtà e l'arte che l'interpreta quando addirittura non l'ispira, un'arte al massimo livello di sviluppo in quel crocevia di una storica crisi.
Consistano in effimeri approcci o in proiezioni eterne, gli avvenimenti, mossi comunque da velleità amorose, sono del resto costretti a misurarsi con archetipi artistici dove il motivo amatorio è in diverso grado presente: al ricorrere di citazioni del Don Giovanni di Mozart, fa eco il richiamo erotico della pittura della Secessione, sullo sfondo della tensione all'assoluto di Wagner. Basti pensare al fulcro del testo, l'amore tra la contessa Aurelie e il barone Falkenir, due grandi personaggi entrambi segnati da ombre luttuose nel passato familiare, i quali nel primo atto si scelgono per rifiutarsi subito proprio per la paura di un impegno assoluto, e si scelgono di nuovo alla fine, ma per cogliere nella morte comune l'unico sbocco a una passione aldilà dell'umano.
Queste esasperazioni Schnitzler le dissemina peraltro in un contesto fiabesco, anche se rivisitato attraverso un bagno nella nascente psicanalisi. Così le tre donne che conducono l'azione, dal momento che si dimostrano le uniche capaci di decidere di loro stesse in piena libertà e coerenza, affidano a formule prese dalla favolistica i loro diktat nei riguardi dell'altro sesso; la fatale Aurelie, impersonata con alto stile e padronanza da grande attrice da Maddalena Crippa, la disperata Judith dell'acre, gelida Gabriella Zamparini, la trepida Seraphine della sensitiva e efficacissima Delia Boccardo s'incamminano verso un diverso destino che probabilmente solo per l'ultima di loro prevede un inquadramento reale, dopo aver sottoposto gli antagonisti a prove da Mille e una notte: enigmi matrimoniali tra tre pretendenti da sciogliersi di lì a tre mesi ai dodici rintocchi notturni, sogni d'amore da non ripetere aldilà della prima volta, avventure soggette al termine da definirsi dalla partner, appuntamenti in maschera col futuro concessi in bianco. E c'è colei che troverà la rivelazione della sua natura solo contemplandosi in un ritratto, e chi conquista la conoscenza dopo una veglia accanto al cadavere di chi non l'ha amata, e anche la nave di un principe azzurro su cui salpare "per sempre". Dai racconti di fate deriva anche il parco degl'incantesimi amorosi del prim'atto, da cui l'incastro delle vicende prende spunto, e la fantastica spiaggia tropicale in Danimarca dove si scioglieranno tutti i nodi. Sono due luoghi immaginari opposti e paralleli che giustamente Ronconi (grazie all'impianto di Margherita Palli) risolve con un identico gioco scenico: delle tavole scorrevoli, galleggianti sopra o intorno all'acqua, combinandosi tra loro con corredo di tapis roulants come nella kleistiana Käthchen von Heilbronn di Zurigo, mentre in un puzzle perpetuamente smontato e ricomposto vanno e vengono tra cespugli di drappeggi ponticelli, trouvailles neo-egizie, simboliche torri a orologio, e poi in un'atmosfera rarefatta un duplice e livido molo e un vetrato pavillon. In contrasto, l'atto centrale, con tre diversi quadri nelle case delle tre protagoniste, s'impernia su una stabilità quotidiana con la disposizione di radi mobili Jugendstil, sempre aldilà del velo di tulle che appanna e distanzia il grande affresco composito.
Ma il momento figurativamente unitario dello straordinario spettacolo, sottolineato da una sapiente colonna musicale, viene dall'inquadramento dell'intera Commedia tra sipari tirati, di un pesante e translucido nero e in successione di più piani nei primi due atti, bianco sporco e in stoffa più aerea nel terzo. A seconda degl'incessanti movimenti delle cortine e delle diverse aperture in svarianti geometrie, si rovescia di continuo il quadro visivo, si sposta l'azione, la s'avvicina o la si allontana, si creano occasioni di simultaneità, in un gioco di sequenze di sapore cinematografico. Protagonista inarrivabile è la luce, a sua volta in perenne movimento nell'ideazione geniale di Sergio Rossi, trovando comunque la più forte e costante fonte d'incidenza da dietro il telone di fondo, che muta il suo colore abbacinante nelle tre fasi: da un blu vivido solcato di stelle nell'atto della speranza, a una violenza aranciata nell'atto della realtà, a un bianco azzurrato e lattiginoso da aurora nordica stemperata nell'angoscia di giorni senza notte nell'atto delle decisioni.
Dallo splendido contesto figurativo, impreziosito dalla ricchezza elegante dei costumi e dall'occhieggiare a tratti di ironiche fronde, i personaggi emergono quindi controluce come sagome astratte. Ma a dispetto di questa estenuata stilizzazione, il recitato insegue precisioni naturalistiche in un'ostinata ansia del particolare. Accanto alle riuscite felicissime della Crippa e anche della Boccardo, spiccano i ritratti personalizzati con gusto da Mauro Avogadro, Giacomo Piperno, Giancarlo Prati, Daniela Margherita, Anita Laurenzi, dalla diligenza più attenta che creativa di Warner Bentivegna, dalla presenza importante di Massimo Popolizio; un po' smorto appare invece il poeta-testimone di Lino Capolicchio, mentre si registra qualche imbarazzo raggelante in alcuni giovani e una fastidiosa esibizione nevroticamente sopra le righe di Anita Bartolucci. Ma negli oltre due mesi di prova della sterminata pièce, tradotta alla perfezione da Eugenio Bernardi, il regista ha compiuto, più di sempre, un raro lavoro sugli attori e con gli attori, fermandosi in una ricerca maniacale del gesto e dell'intonazione, che resta alla base di quest'impressionante quadro di un'apocalisse. Solo così è riuscito a moltiplicare esemplarmente la tavola dei significati di un testo fino a oggi considerato 'maledetto' per la sua anomalia e la sua scomodità, fino a elevarlo a illuminante lettura di un'epoca.