È stato il successo dei "Lunatici" a spingermi a proporre alla Compagnia Fortunato-Fantoni-Ronconi-Scaccia di mettere in scena "Il candelaio" di Giordano Bruno che vedevo come logica conseguenza di quel primo spettacolo. La pazzia è certamente una delle chiavi del "Candelaio": ma ad affascinarmi, in questo caso, era piuttosto il plurilinguismo che percorreva il testo e che vanificava, nella beffa, il petrarchismo dei letterati, il tecnicismo degli scienziati, il classicismo latineggiante degli eruditi, all’interno di una società, di una concezione del mondo, di una religione in sfacelo. E poi una nevrosi ossessiva, un sadismo scoperto, l’avarizia, la cupidigia... Il geometrico squallore della scena di Ceroli, composta di una quantità di infissi, tolti a case in demolizione, ripugnanti nei loro colori sordidi, nel loro ordine assurdamente simmetrico, allineati o sospesi contro un fondale grigio, restituiva, con il gioco di imposte aperte e chiuse, l’orrore di certi deliri. Uno specchio sgradevole messo di fronte a noi, una specie di popoloso deserto di vecchie porte, che si aprivano sul vuoto, che si incastravano tra loro. Lo sgomento con cui è stato accolto Il candelaio e lo sgomento che, in seguito all’accoglienza, si è impadronito degli altri capocomici, mi hanno fatto capire subito che il mio modo di guardare al teatro non era in sintonia con quel tipo di compagnia e ho tolto immediatamente il disturbo.
a cura di Giovanni Agosti
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
Feltrinelli, Milano, 2019, pp. 146-147