Moïse et Pharaon

Musica:   Gioachino Rossini

Personaggi - Interpreti:
Moïse - Ildar Abdrazakov
Pharaon - Erwin Schrott
Aménophis - Giuseppe Filianoti
Éliézer - Tomislav Muzek
Osiride - Giorgio Giuseppini
Aufide - Antonello Ceron
Sinaïde - Sonia Ganassi
Marie - Nino Surguladze
Una voce misteriosa - Maurizio Muraro


Maestro direttore e concertatore:   Riccardo Muti
Maestro del coro:   Bruno Casoni
Coreografie:   Micha Van Hoecke

Scene:   Gianni Quaranta
Costumi:   Carlo Diappi
Regista collaboratore:   Ugo Tessitore


Allestimento:   Teatro alla Scala di Milano


Prima rappresentazione
Teatro alla Scala, Milano
07 dicembre 2003

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Tutti i prodigi invocati da Mosè partono da quel grande organo in scena (alto 7-8 metri). Le tenebre alla fine dell’atto II, escono come una lama di buio dall’organo che si spacca. Il simulacro di Iside che cade […] ha la stessa origine.
E il Mar Rosso?
Si aprirà come un mare che si rispetti. Non sarà di acqua vera… ci abbiamo provato, ma è stato difficile dividerla prettamente. Ci andrà però molto vicino.
Intervista di Carlo Maria Cella
«Il Giorno»
29 novembre 2003

Non sono ancora Geova. Per ora.


La scena è poco più di un impianto fisso, un edificio ecclesiastico sommerso dal deserto, con organi spaccati e il Mar Rosso che alla fine si apre. Ma senz’acqua, per quella ci vorrebbe Geova. Io non sono ancora in grado. Per ora.
Rita Cirio
«L'Espresso»
4 dicembre 2003

Rassegna Stampa


L’idea scenica realizzata nel 1983 a Parigi è stata fortemente ricreata (…), ma sostanzialmente ha riconfermato l’intendimento emblematico, riconoscibile nella stessa impaginatura che colloca il personaggio-coro con la staticità propria dell’antica tragedia e pure dal variegato gioco dei rimandi stilistici: il monumentale organo della tradizione francese ottocentesca a suggerire la dimensione sacrale, i sottili cortocircuiti tra i motivi egizi e il gusto neoclassico e pure lo stesso ritmo allegorico dei tanti ‘effetti speciali’, l’apertura spettacolare del Mar Rosso soprattutto. Soluzioni che potevano anche essere percepite come un freno all’azione, ma che in realtà trovavano corrispondenza con il passo musicale innescato da Muti, il quale ha saputo mediare con una sensibilità acutissima l’idea del grandioso propria alla vicenda biblica con l’intimità che vi circola dentro; calibro che ha evitato anche i rischi insiti nell’incastonarsi entro le fibre della narrazione della vicenda amorosa tra la nipote di Mosè e il figlio del Faraone, così da farla invece vivere organicamente della stessa pressione emozionale che governa il conflitto tra ebrei e egizi.
Gian Paolo Minardi
«Gazzetta di Parma»
8 dicembre 2003
Moïse et Pharaon è un megalìte denso di cori, balli, scene grandiose e interventi soprannaturali, con cui sia Muti sia Ronconi si trovano a perfetto agio. L’uno tiene le fila dello spettacolo con la consueta acribia, ma rinunciando a certi abituali estremismi, a favore di tempi ben misurati, sonorità morbidissime (sarà la suggestione nel vederlo dirigere senza bacchetta?) e lasciando persino liberi i cantanti di prodursi in quei liberi interventi sul testo dettati dalla coeva prassi esecutiva che solitamente rifiuta nel giovane Verdi e non pretende in Mozart. L’altro ottiene dalle scene di Gianni Quaranta il pieno inveramento della propria poetica, con un coacervo di elementi simbolici storicamente e stilisticamente eterogenei, dove le dune del deserto convivono con l’interno di un’ideale sinagoga, gli organi barocchi coi violinisti klezmer, le onde e le nuvole di cartapesta coi passi stilizzati delle ormai classiche coreografie di Micha van Hoecke (primi ballerini d’eccezione: Luciana Savignano, Roberto Bolle, Desmond Richardson).
Marco Beghelli
«Il giornale della musica»
8 dicembre 2003
Riccardo Muti, direttore, e Luca Ronconi, regista, concordano sul fatto che quest’opera di Rossini, nella versione del 1827, ha i caratteri dell’oratorio sacro: non la nascita d’un’azione, ma la sua rievocazione e la meditazione sul suo significato. Poi, proprio i fatti che sono rievocati portano anche allo spettacolo; i prodigi delle tenebre quando il Faraone si rimangia la promessa di lasciare partire gli ebrei verso la Terra Promessa, delle fiamme dal cielo, e del passaggio del Mar Rosso sono così coinvolgenti che portano anche al dramma per conto loro. Ronconi rielabora (…) l’impianto che inaugurò le felici stagioni di Massimo Bogianckino a Parigi, quasi vent’anni fa, con un deserto immaginario steso in pendenza fra pareti d’un luogo sacro dove un organo campeggia, e pone il coro, quasi sempre fermo, in un piano sottostante; i protagonisti, nei felici costumi di Carlo Diappi legati alle immagini delle storie bibliche, si muovono con spicco. Quando, secondo l’uso parigino, entrano i ballerini, il coreografo Micha van Hoecke si arrangia sulle dune: come proiezioni dei personaggi vivono in gesti stilizzati il fuoriclasse afroamericano Desmond Richardson e l’autorevole Roberto Bolle; Luciana Savignano, Iside, è una mitica apparizione con leggendarie ali preziose. Non va chiesto a Ronconi di comporre una regia sulle pulsioni della musica, ma questo spazio e quest’idea le assecondano. La novità sta nell’ultimo atto: un macchinario alza tra nuvole i flutti neri del mare, che al muover degli ebrei si levano maestosi in verticale e tornano al loro posto per sommergere gli egizi. Un salto nel barocco, ed anche un tuffo nell’emozione.
Lorenzo Arruga
«Il Giorno»
9 dicembre 2003
La sobria regia di Luca Ronconi è pensata in funzione della musica (cori spesso al proscenio e sempre rivolti al direttore, in una statica immobilità), e unisce efficacemente un’idea dell’Egitto visto attraverso la Parigi ottocentesca, quasi engres «contaminato» da risentimenti cattolici e controriformisti. (…) L’esperto scenografo Gianni Quaranta realizza l’austera prima scena con colonnati neoclassici, un tempio che sorge tra paesaggi desertici, e un immenso organo sul fondo, quasi dovesse risuonare una pagina di Franck; gli ebrei, accovacciati al proscenio, indossano tuniche nere, ovviamente non datate. Gli egiziani, invece, biancovestiti con decorazioni dorate, sono molto stile impero. Nel second’atto l’organo si divide in due troni del faraone, in una concezione intimistica della scena delle tenebre, mentre nel terzo l’allestimento accoglie la decorazione ornata nei pulpiti di un barocco cattolico e ottocentesco.
Mario Messinis
«Il Gazzettino»
9 dicembre 2003
Mantiene le promesse Moïse et Pharaon, anche al vaglio dell’esigente pubblico di abbonati scaligeri del turno A, per tradizione competente e non remissivo. Applausi insolitamente vibranti perfino a scena aperta (al termine della modulazione e del coro che segnano il ritorno della luce, nel secondo atto), e commenti positivi negli intervalli. Spettatori sorpresi, quasi sconcertati, dalla bellezza della musica e dalla bravura primeggiante del coro di Bruno Casoni; toccati nel profondo dall’interpretazione musicale di Riccardo Muti; solo un po’ frastornati semmai dall’impostazione visiva dello spettacolo (soprattutto dall’organo barocco che spunta tra le dune egizie), ma docili nel seguire il racconto essenziale ma intenso della regia di Luca Ronconi. La verifica nella prima serata ‘normale’, con lo stesso cast della prima, ha fornito solo conferme. Moïse et Pharaon è, in alcuni numeri come Quintetto e finale del secondo atto o la celebre Preghiera e successiva scena a sola orchestra del quarto (…), una partitura unica per ispirazione e ricercatezza di scrittura.
Angelo Foletto
«La Repubblica»
12 dicembre 2003
Ronconi dunque coglie nel profondo l’aspetto rituale e sacrale dell’opera. Tuttavia in questo remake […] c’è del bello e del nuovo, ma il bello non è nuovo e il nuovo non è bello. Se la versione 1983 si chiudeva con un gioco di ombre, immaginando che il Mar Rosso attraversato dagli ebrei in fuga fosse idealmente collocato verso la platea, nella versione 2003 abbiamo una scena molto più tradizionale, anche se risolta in modo non realistico, secondo il gusto barocco del “meraviglioso”: le onde del mare si aprono obliquamente lasciando un corridoio libero che si richiude al passaggio degli egiziani. Inoltre piuttosto banale sembra la recitazione, che lascia ai cantanti movimenti convenzionali e spontanei: così il dramma della fanciulla Anaï […] rimane poco approfondito.
Arrigo Quattrocchi
«Il manifesto»
9 dicembre 2003
La sobria regìa di Ronconi, meno estrosa del solito, è pensata in funzione della musica (cori spesso al proscenio e sempre rivolti al direttore, in una statica immobilità) e unisce efficacemente un’idea dell’Egitto visto attraverso la Parigi ottocentesca, quasi Ingres “contaminato” da risentimenti cattolici e controriformisti (gli unici aspetti visivi in cui affiora l’ironia ronconiana).
Mario Messinis
«Il gazzettino»
9 dicembre 2003

Il coraggio del maestro e il genio di Rossini

L’organo che campeggia modificandosi nella sottolineata quadratura del palco sembra spiegare come la musica, nella sua trascendenza, possa diventare fatto umano, pure restando librata in un altrove verso cui aspiriamo e che vorremmo far nostro in modo definitivo una volta per tutte.
Enzo Siciliano
«La repubblica»
8 dicembre 2003
La regìa di Luca Ronconi vede […] l’Opera siccome Tragedia classica, ed errato sarebbe rimproverarle una presunta staticità.
Paolo Isotta
«Corriere della sera»
8 dicembre 2003
[…] un coacervo di elementi simbolici storicamente e stilisticamente eterogenei, dove le dune dl deserto convivono con l’interno di un’ideale sinagoga, gli organi barocchi coi violinisti klezmer, le onde e le nuvole di cartapesta coi passi stilizzati delle ormai classiche coreografie di Micha van Hoecke […].
Marco Beghelli
«Giornale della musica on-line»
8 dicembre 2003
Lo spettacolo di Ronconi riprendeva – con marginali ritocchi – quello firmato all’Opéra vent’anni fa: affatto privo di regìa, esaurita nella monumentale inerzia scenica inframmezzata da movimenti di masse d’esilarante impaccio, era vecchio allora ed è veteroteatro oggi […].
Giancarlo Cerisola
«Classic Voice»
febbraio 2004
Come Omero, anche Luca Ronconi ha uno stile sul quale qualche volta dormicchia: s’intende, da par suo, sognando cose d’inconfondibile impronta e qualità. Ma in questo Moïse et Pharaon scaligero accade che le idee divengano automatismi, come quella del grande organo barocco scomponibile, proveniente da uno spettacolo parigino del 1983 poi riciclato in un Orfeo di Luigi Rossi, apparso due anni dopo e proprio alla Scala. Incerta tra realismo e deliberata finzione, la scena della traversata del Mar Rosso si è risolta all’insegna del macchinoso. In compenso, sobri ed efficaci i movimenti di personaggi e masse corali, con qualche unghiata leonina, come quegli Egizi appiattati come topi nei sotterranei della reggia durante la piaga delle tenebre, o la commovente consacrazione dei primogeniti, vista come da un interno di sinagoga moderna, con tanto di ragazzini in talled e violinista sviolinante.
Giovanni Carli Ballola
«L’espresso»
31 dicembre 2003
La messinscena […] muove da un’idea interessante: considerata la “tinta” oratoriale dell’opera, perché non intrecciare tra loro la sacralità di una chiesa (con tanto d’organo barocco, colonne, navate e scorci absidei) e l’ambientazione della vicenda biblica, cioè petrosità, deserto, e egizianità varie? Ovviamente di atto in atto, tale impianto si adegua alla narrazione, nuovi elementi simbolici (sole, nuvole, mare, eccetera) e nuove prospettive entrano in gioco. Perciò la solennità della scena è tutt’altro che statica, le “trovate” per dar conto dei miracoli mediati da Mosè sono efficaci (anche se l’aprirsi e poi il richiudersi del Mar Rosso è ottenuto con il sollevarsi del palcoscenico in onde “meccaniche” che paiono lava rappresa, prive di fascino) e le luci sono gestite con sapienza impressiva. Ma masse e personaggi non si muovono affatto. Vive la cornice, non il quadro.
Claudio Tempo
«Il secolo XIX»
8 dicembre 2003
Dalla regìa di Luca Ronconi ci si aspettava più vivacità: è molto statica e rigida. D’accordo che […] non c’è molto da muovere ma […] tenerle sempre ferme, come in un oratorio, non alleggerisce il peso del lungo spettacolo. […] Ronconi […] ha identificato […] il regno del Faraone con il fasto della controriforma. Serpeggia, inoltre, […] un filo ironico, seppur meno visibile che in altri lavori del geniale regista: i violinisti alla Chagall che accompagnano le masse ebraiche nerovestite sono […] un particolare affettuoso e spiritosamente allusivo.
Paolo Gallarati
«La stampa»
8 dicembre 2003
È uno stimolante commento scenico sull’Antico Testamento al tempo di Rossini – rispetta la natura oratoriale del Moïse, assicura chiarezza ai fili dell’azione e lascia spazio alla musica.
Andrew Clark tr. it. Jacopo Pellegrini
«Financial Times»
9 dicembre 2003