Nel programma di sala viene ribadito più volte che è il terzo Falstaff per Luca Ronconi, i primi due con direttori di peso quali Solti e Mehta in festival di prestigio come Salisburgo e il Maggio Fiorentino. Qui sembra essere stato innervato dalla giovinezza del direttore Daniele Rustioni e dell’orchestra (età media inferiore a trent’anni), oltre che dall’aria levantina di Bari. Ronconi si rivolge all’Ottocento di Verdi e Boito ma per trasfigurare quella tarda rivoluzione industriale italiana in chiave malinconica. Ne risulta un’amara commedia che non disdegna il sorriso ma che rivela uno spessore accentuato (…) da implicazioni psicologiche moderne. Il regista è efficace nel ripensare i rapporti di forza tra i primari e nel descriverli nei loro caratteri vivi e presenti, originali senza alterare il libretto e il senso della storia, ottenuti con espressioni del viso, curatissimi gesti, movimenti pieni di senso e significato.
Francesco Rapaccioni
«teatro.org»
30 novembre 2013
Ronconi (…) dichiaratamente ha inteso creare questa volta qualcosa di ‘nuovo’ e diverso, un Falstaff ‘lineare, senza stupidaggini, senza finte trovate, leggibile da ogni persona di buonsenso’ e con una ‘assoluta semplicità visiva’, evitando cioè che la scenografia potesse riagganciarsi a un’ambientazione tradizionale. Ma a conti fatti è una scelta che funziona e convince, tenuto conto, tra l’altro, che per il pubblico le possibilità di fare confronti erano praticamente nulle.
Nicola Sbisà
«La Gazzetta del Mezzogiorno»
21 novembre 2013
Il Falstaff di Giuseppe Verdi si apre con una ‘sonata’ e si chiude con una fuga: i due bastioni formali sui quali si regge il linguaggio della musica occidentale. Tra questi due estremi fiorisce un ordito intricato e incessante di frasi, temi, motivi che non risponde, al contrario, ad alcuna forma convenzionale, la cui natura profonda è solo quella dell’arborescenza: un tronco che genera un ramo, un ramo che dà vita ad un altro ramo e così via fino alle foglie più alte. Un ‘pandemonio’, ma – come scrive Boito in una lettera al maestro – ‘chiaro come il sole e vertiginoso come una casa di pazzi’. Grazie a uno di quei rari prodigi del teatro d’opera per cui un allestimento assorbe la partitura attraverso la pelle del palcoscenico il Falstaff ‘nuovissimo’ immaginato da Luca Ronconi per il Petruzzelli di Bari sembra incarnare questa stessa, rigorosa logica formale. I due fondamenti ‘estremi’ della mise en scène appartengono al vocabolario di base del più illustre artigianato teatrale: la luce e il buio, la scena bianca e la scena nera. Dal duetto di apertura tra Sir John e il dottor Cajus (composto per l’appunto seguendo il canone della forma sonata) fino alla evocazione, all’inizio del terzo atto, della leggenda del Cacciatore Nero, la scenografia disegnata da Tiziano Santi è costantemente ‘chiara come il sole’. Via l’Osteria della Giarrettiera, via il giardino di Alice, via la casa di Ford: solo tre enormi teli bianchi, appesi alle corde di scena, lievemente sporcati dal tempo, che formano una scatola neutra sulla quale vengono quasi disegnati gli oggetti ‘reali’: il letto sempre sfatto del Pancione, uno specchio sghembo, il cesto, il paravento, e, nel primo atto, le ‘macchine celibi’ che trasportano le due comunità rivali: il gigantesco velocipede delle ‘gaie mogli di Windsor’ (né allegre, né comari...) e la scheletrica locomotiva dei loro tristi mariti... Nel momento in cui ‘rintocca la mezzanotte’ e Quickly racconta la leggenda della Quercia di Herne i teli bianchi si tingono di nero e dal cielo del palcoscenico scende una immensa quercia capovolta che insinua i suoi rami fin dentro le coltri di Falstaff. Immersa nel nero scocca anche la ‘fuga buffa’ del Finale che mogli e mariti, più o meno gabbati, cantano seduti in proscenio, quasi affacciati sull’orlo di un invisibile abisso. Tra questi due estremi, il pandemonio e la vertigine, Ronconi, lavorando accanitamente sul corpo, il gesto e il movimento dei cantanti, traccia la fittissima trama ‘arborea’ delle relazioni tra i personaggi, sismografo fedele dell’albero dei motivi costruito da Verdi.
Guido Barbieri
«La Repubblica»
24 novembre 2013
Ronconi non ha guardato né a Shakespeare né alla contemporaneità, ma al tardo Ottocento di Verdi e Boito, animando la scena di biciclette e macchine a vapore, un richiamo alla rivoluzione industriale che in Italia arrivò ben più tardi che in altri paesi. Il regista ha inoltre preferito glissare sul termine ‘comari’, trasformando le donne di questa amara commedia (Alice, Meg, Mrs Quickly e Annetta) in un quartetto di cervelli astuti e per nulla intimoriti anche sul piano delle relazioni col sesso maschile, se si considera che Alice riceve Falstaff in camera da letto, in camicia da notte, facendo addirittura finta di cedergli. Il cavalier Falstaff si presenta infatti ben vestito e ripulito, con le braghe chiuse e la pancia trattenuta da un gilet ricamato, a conferma che Ronconi vede in lui un gran signore, anche se decaduto. Il Falstaff (…) è uno spettacolo ricco ma pulito e oggettivamente bello da guardare (l’oscuro quadro finale nel bosco con l’albero rovesciato sul lettone del protagonista è pura delizia).
Fiorella Sassanelli
«Il giornale della musica»
22 novembre 2013
Luca Ronconi per la terza volta torna al Falstaff, accentuando l’essenzialità del segno visivo e giocando a sottrarre connotati all’ambiente dell’azione. A sua detta si tratta di ‘un’evoluzione verso la semplicità’ e non v’è motivo di non credergli. Viene tuttavia il dubbio (…) che la presunta scarnificazione di quanto ruota intorno a un personaggio così carnale possa essere letta come raffinata focalizzazione su un unico problema: lo squinternarsi del rapporto tra i sessi.
23 novembre 2013
«gbopera.it»
Lorenzo Mattei