Falstaff è un' opera così scoperta da non aver bisogno di chissà quale rilettura. E' anche vero, però, che la vicenda raccontata da Verdi e Arrigo Boito, complice Shakespeare, non è ad esclusivo uso e consumo del mondo elisabettiano. Qui non siamo di fronte ad un'opera legata a doppio filo ad epoche e temperature storiche precise e inderogabili, come Aida o Otello: a ben vedere i personaggi ci somigliano molto, potremmo essere noi, oggi, come attuale è lo spasmodico desiderio di ringiovanimento erotico del protagonista, su cui si focalizza il desiderio di raggiro (o di vendetta) di un gruppo di signore che non si capisce se siano più allegre, come diceva il titolo shakespeariano, o più ciniche, come invece appare a noi. Da qui, dunque, l'idea di rinunciare all'ambientazione elisabettiana (che, invece, rispettai nell' allestimento di Salisburgo) e di preferire costumi con evidenti riferimenti all'oggi. […] La comicità è un risultato, l'allegria è una condizione. Qui si ride alle spalle di qualcuno, con sarcasmo. Quindi non me la sentirei di garantire la riuscita di Falstaff come opera comica. Né tantomeno è una farsa volgare, da osteria. E' in realtà un'opera molto, molto cattiva, sarcastica. E in effetti c' è una sottile rispondenza tra il pensiero di Savinio e una delle idee che stanno alla base dell' allestimento fiorentino: il senso di morte, vissuto però con la saggezza e il disincanto della vecchiaia, quando lasciare per sempre questo mondo ormai non sembra più così terribile. Shakespeare stesso ci racconta Falstaff sul suo letto di morte nell'Enrico V, per voce di Quickly: ed è una pagina commovente, di grande tenerezza, di toccante compassione. Nelle fonti, dunque, c' è un cammino di questo personaggio dalla comicità alla tragedia che possiamo rintracciare anche in Verdi e che ci aiuterebbe a spiegare quell' epilogo così irreale e fiabesco dell'opera. Nell'ultimo atto assistiamo ad un salto d' ambientazione che crea problemi nella messinscena: da una chiave realistica si passa ad una dimensione fantastica, ad un mondo di elfi che, se apparteneva alla cultura elisabettiana, era senza dubbio estraneo a quella verdiana. Non è illegittimo immaginare che quel brusco cambio di tono sia una soggettiva delirante di Falstaff: inchiodato al suo letto di morte, in preda alla febbre dopo essere stato gettato nel Tamigi nella cesta dei panni sporchi, si abbandona alle visioni, forse agli incubi che preludono alla fine estrema. Uno scarto d'atmosfera che, prima ancora di verificarsi sulla scena, avviene all'interno del personaggio, e come tale va rappresentato.
Falstaff è anche un'opera di scontri: tra uomini e donne, tra giovani e vecchi.
E qui sta il fulcro della sua comicità. Se immaginiamo il protagonista come un nobile decaduto e a questo aggiungiamo il suo essere un improbabile Don Giovanni senile in cerca d'amore con donne attempate, allora risulta più credibile la beffa ai suoi danni, ordita da un gruppo di borghesotti arricchiti e parvenu. Lo scarto d' età e di ceto sociale fra lui e le comari, fa di Falstaff qualcosa di più del solito pancione sessuomane: un personaggio patetico e divertente. L'idea degli abiti moderni ci aiuta molto nell'evidenziare le differenze generazionali, sociali e la decadenza del protagonista.
«Tutto nel mondo è burla», fa dire Verdi ai suoi personaggi alla fine dell'opera. Dietro questa affermazione si può intravedere l'allusione ad un mondo in decadenza, in coincidenza con la fine di un secolo, l' Ottocento?
Non me la sentirei di dare una lettura sociologica di Falstaff: sarebbe una scusa troppo semplice per poi metterla in scena con riferimenti allo sgretolamento impietoso degli ideali a cui stiamo assistendo oggi. Falstaff non è un'opera che parla della fine della società, ma della crisi del melodramma, e in questo è da considerare uno snodo importante nella storia della lirica, un punto di non ritorno con cui i futuri compositori dovranno confrontarsi, senza scampo. C'è una modernità dei caratteri, senza dubbio, ma la portata rivoluzionaria è altrove: Falstaff è un'opera che risolve in maniera egregia i problemi di drammaturgia rimasti fino ad allora aperti, insoluti. Come non scorgere, nei tratti nostalgici e malinconici di cui è ricco questo capolavoro, vere e proprie premonizioni della commedia musicale straussiana, vedi Rosenkavalier?
Cosa lega Luca Ronconi a Verdi, compositore che attraversa come un filo rosso tutta la sua carriera?
Non è semplice spiegarlo, anche perché dovrei scindere il Ronconi uomo, appassionato d'opera e spettatore, dal regista. L'uomo è soggiogato dalla musica. Il regista accetta la sfida che ogni opera verdiana comporta. Perché Verdi ti mette alla prova. Se, infatti, Rossini, Bellini o Donizetti non forniscono al regista nessuna indicazione precisa, anzi, nelle loro opere senti la totale indifferenza nei confronti dell'adesione o del tradimento degli esecutori, in Verdi c' è un' attenzione totale alla messinscena. C'è un senso del teatro fortissimo, che ti bracca. Il percorso del teatro moderno, dunque, non poteva non interferire, o meglio, entrare in attrito con la pesante eredità dell' autore che grava su ogni sua opera. E' stato questo senso di sfida a spingermi al confronto con Verdi, e in quest' operazione considero esemplari due spettacoli fiorentini. Il Nabucco, andato in scena nel 1977 con i suoi riferimenti alle lotte risorgimentali, e il Trovatore, allestito nello stesso anno, una regia in cui focalizzavo la mia attenzione non tanto sul legame tra Manrico e la vistosa figura della zingara Azucena, ma sullo strano rapporto tra Leonora, Manrico e il Conte, immerso in una notte perenne di plenilunio e fuoco. Compito di un regista è anche quello di mettere in luce la vitalità di un' opera o di un testo, rilevare quello che il tempo aggiunge e che non è presente nell'idea originaria dell'autore.