Sopra (troppe) tombe un grandissimo Verdi
In quell'ambiente si dipana, da sinistra verso destra, come in una lettura involuta, la vicenda politico-coniugale di Filippo II, di sua moglie Elisabetta e dell'infante Carlo. Finiranno tutti schiacciati dalle macchine controriformistiche: Carlo cacciato da un enorme crocifisso portato a braccio verso il sacello di Carlo V che provvidenzialmente si apre, Elisabetta tra due carri allegorici ricchi di mortifere insegne, Filippo tra le braccia stritolatrici dell'Inquisitore. Inutile dire che l'idea di Luca Ronconi e Luciano Damiani è articolatissima e conosce momenti di fascinosi lutti: come quando appare una barca carica di morti, o quando carlo, incatenato alla statua funebre di Carlo V, assiste impotente all'agonia di Rodrigo, o quando il colpo fatale per Rodrigo viene sparato non da un archibugere ma da un carro allegorico pieno di cattolicissime insiegne.
Michelangelo Zurletti
«La Repubblica»
9 dicembre 1977
Don Carlo nel gioco delle vanità
In Don Carlo non è l'opera che vive nelle temperie del primo amore e Ronconi con un meccanismo di sottrazione affascianante ha sciolto l'incanto di quella malinconia amorosa che pervade il primo atto e di quella Francia ammaliante di neve riuscendo anche in questo caso a trovare la pertinenza dell'immagine al fatto musicale. La resa dello spettacolo ha avuto però un'impennata mirabile quando si sono sentiti gli accenti del Don Carlo con la situazione propria del Don Carlo. Scomparsa la suggestione amorosa del primo atto è venuta in primo piano la vera dominante di tutta l'opera: l'ombreggiatura intensa oppressiva e sconfinata di questi personaggi che l'esecuzione ha scolpito con un segno indimenticabile. Tutto diventa vero con questa direzione e regia: il senso della vanità e l'annullamento delle ambizioni. Tutti qui restano alla fine senza ambizioni, desideri, speranze, senza orgogli. […] In ogni momento si è sentito il grande regista che suona la tastiera dei fatti visivi, riesce a sviluppare l'azione secondo una condotta degli eventi totalmente interpretante.
Duilio Courir
«Corriere della Sera»
9 dicembre 1977
«Don Carlo» da vedere e ascoltare
Questo fosco Don Carlo costruito da Luciano Damiani e Luca Ronconi, tenendo d'occhio le pitture di Goya e l'atmosfera dell'Escuriale, vive tra i teschi che, come una decorazione macabra e mondana bordano carri e baldacchini. Al centro stà l'auto da fé, col suo bravo rogo degli eretici incappucciati: una festa, uno spettacolo “istruttivo” per i dissenzienti di tutti i tempi. […] E' tutto da vedere e da ascoltare: spagnolesco e verdiano. C'è il fato della “grande opera” di marca francese, l'anticlericalismo di Verdi e di tutti gli uomini del Risorgimento, la violenza del dramma romantico.
Rubens Tedeschi
«L'Unità»
8 dicembre 1977
Un «Don Carlo» che scatena le passioni
Ronconi e Damiani risolvono il problema della realizzazione scenica esaltando assieme l'aspetto spettacolare e quello drammatico-politico. Dopo il prologo tra le nevi della foresta di Fontainebleau, essi fissano il dramma nell'Escurial, tra i bronzi delle tombe dei re che campeggiano al lati e al centro della scena. Tra i bronzi funerari si stende così un grande spazio vuoto da riempire […] con la processionedel carnevale di morte. […] Questa Spagna tragica e barocca è esattamente quella che esigevano Verdi e l'Opéra di Parigi.
Rubens Tedeschi
«L'Unità»
9 dicembre 1977
Barocchi e profumi
Un iperbolico Don Carlo alla Scala, carnevale di Viareggio di madornali carri allegorici con emblemi di potere catto-spagnolesco […].
Alberto Arbasino
«L'Espresso»
10 novembre 1986
Un «Don Carlos» eccellente che non è riuscito a sedurre
Ronconi vede il significato ultimo del Don Carlos nella denuncia della vanità e delle disgregazioni di ogni valore umano: sentimentale e civile, privato e pubblico […]. Il regista non intende dunqu concedere spazio acuno alla dialettica della coscienza liberal-borghese, che è anche quella verdiana: vale a dire la dialettica tra i due poli opposti e complementari del cinismo e del moralismo […]: il cupio dissolvi del regista, che si traduce nell’immagine di un teschio su ogni oggetto portato in scena, pialla il dramma delle sofferenze, lo universalizza in senso nichilista, per togliere la carica dialogica che è tipica dell’universo verdiano, depaupera i personaggi della dovizia caratteriale, della mobilità di coscienza e li fa regredire ad una sorta di elementarietà etica, tipica dei caratteri precedenti del Don Carlos. Tanto più è risultato inutile e contraddittorio negare il processo dialettico suddetto, per riproprlo, banalizzandolo, a livello di espediente scenico. Infatti, lungo tutto l’arco dell’opera, hanno agito su un doppio piano: in avanscena, quando trattavano eventi privati, sul fondo – ove sfilavano come su rotaie fra i frati, il popolo, le guardie in ininterrotta processione – quando erano coinvolti da problemi ufficiali.
Enrico Cavallotti
«Il Tempo»
8 dicembre 1977
Chi rende a me quest’opera?
Quanto alla messinscena, a parte l’atto di Fontainebleau collocato nel vuoto, si fonda su di un contrappunto, per buona parte sghembo, fra un’azione melodrammatica affatto tradizionale e un controcanto mimico e scenografico d’intenti puramente simbolistici. La scena è spartita in due piani: su quello anteriore, più basso, che con pochi elementi evoca la cappella sepolcrale di Carlo V, si svolge l’azione, su quello posteriore filano quasi ininterrottamente carri paracarnevaleschi, carichi di spagnolissimi emblemi di morte e di festa, d’inferno e paradiso […] dati come scorrimento di ufficiale “storia”, il più spesso considerata in sé, qualche volta in rapporto diretto con il privato dramma dell’avanscena. Peccato che il gioco duri troppo […]. E peccato che la regìa abbia quasi del tutto abbandonato gl’interpreti principali a se stessi. Eppure per più aspetti la faccenda funziona, anche in senso direttamente espressivo […]. (Ma quei carri, quei fondali d’alluminio, quei chilometri di merletti fatti a mano: quanto saranno costati?)
Fedele d’Amico
«L’Espresso»
25 dicembre 1977