Fra i miei spettacoli c’è un solo Cechov, Tre sorelle, peraltro messo in scena in un modo abbastanza anomalo. Perché mai ritornare a quest’autore, allora? Il primo motivo è, per così dire, strutturale: quando ci riferiamo a testi elisabettiani o a Goldoni, per esempio, ci si rende conto che la convenzione teatrale è in loro talmente presente che non ci si pone neppure lontanamente il problema della verosimiglianza, dell’autenticità. Quando invece ci confrontiamo con la drammaturgia dell’Ottocento – Ibsen e Cechov, per esempio -, ma anche con molto teatro contemporaneo, ecco che le categorie della credibilità e della verosimiglianza sembrano imprescindibili. A me invece, da spettatore, pare che con il passare degli anni dalla creazione di questi testi, di questi personaggi, quel tipo di credibilità si trasformi in una falsa convenzione senza avere più nulla di originario. Oggi di fronte a uno spettacolo cecoviano non riesco minimamente a credere agli sforzi che si fanno per renderlo vero, autentico: mi sembra del tutto chimerico pensare di rintracciarvi delle figure umane, reali “come nella vita”. Qui a Spoleto lavorerò con degli attori su dei pezzi de Il gabbiano senza pensare alla rappresentazione di questo testo e senza affrontarli nell’ordine in cui sono stati scritti, ma raggruppandoli per temi, per esempio mettendo tutte in fila le scene in cui appare Masha senza pretendere di dare l’impressione che “veramente” quel giorno d’estate nella tenuta di Sorin… Sorin la sua tenuta non ce l’ha più, e quel mondo e quella società non esistono più. Ma allora che cosa c’è nel Gabbiano che voglio mettere in luce e che lo rende un “altro” Gabbiano rispetto alla tradizione? C’è che tutti i personaggi sono completamente viziati di teatro o di letteratura e che molte delle contrapposizioni usuali che vi vengono rappresentate – fra vecchi e giovani artisti; la madre cattiva e egoista e il figlio infelice – sono fasulle come lo è l’infelicità di Masha che, semmai, le offre la possibilità di diventare personaggio, di attirare l’attenzione su di sé. Intendiamoci: il “Gabbiano” è una commedia meravigliosa alla quale la pretesa verosimiglianza di cui dicevo crea un danno perché si sente che il tentativo di rendere credibile e accettabile qualche cosa è esattamente il contrario della ricchezza allo stato magmatico di un’opera nel momento in cui l’autore la progetta, la crea. Solitamente si pensa a questa commedia come a un testo sul teatro: in realtà qui si parla di letteratura, della scrittura e del teatro come letteratura non come evento scenico. In fondo la commedia che ha scritto Kostja (per me è lui il vero gabbiano non Nina) molto criticata dalla madre Arkadina è quanto di più letterario ci sia. Arkadina lo sa bene perché, al contrario di quanto si pensa, è veramente una grande attrice: se dà l’impressione di recitare nella vita è perché lei “non può” essere altro nella vita che la grande attrice che è. Nei frammenti che presentiamo a Spoleto mi preme, dunque, mettere in luce la profonda inautenticità dei personaggi che si riconoscono tali per un’identità che li differenzia dagli altri: l’identità di Kostja sta nel suo differenziarsi da Trigorin, quella di Nina nell’imitare Arkadina, quella di Masha nell’inventarsi dei sentimenti in modo romanzesco… In questo Gabbiano, in cui sarò Dorn, il dottore, farò qualcosa che ho fatto solo a Spoleto l’anno scorso con Ibsen: parlare in pubblico di quello che sto facendo mentre lo sto facendo e perché, dare le battute magari assumendo ruoli diversi mentre il pubblico assiste al nostro incontro con le difficoltà, i problemi posti da questo testo. Niente a che fare con una lezione: noi, con i nostri abiti di tutti i giorni, saremo in palcoscenico con le nostre parti a memoria ma lasciando spazio all’improvvisazione seppure all’interno di determinate regole. È un puro esperimento che magari potrà fare apparire il Gabbiano più greve e “cattivo” di quanto siamo abituati ad aspettarci da un testo di Cechov. Avere a che fare con il frammento permetterà inoltre agli attori ampi spazi di libertà: potranno rendersi conto che una cosa si può fare in cento modi diversi, ma mai arbitrari. Il mio compito sarà proprio quello di spingerli verso la maggiore libertà possibile, fargli comprendere, per esempio, che c’è un’enorme differenza fra una persona che nella vita è davvero infelice per amore e un personaggio teatrale che soffre per amore. Il personaggio è una funzione letteraria e, come tale, non ha il passaporto per la vita vera.