Un altro gabbiano

da:   Anton Cechov

Personaggi - Interpreti:
Arkadina - Elena Ghiaurov
Konstantin - Gabriele Falsetta
Konstantin - Andrea Luini
Sorin - Riccardo Bini
Šamraev - Marco Grossi
Trigorin - Paolo Pierobon
Dorn - Luca Ronconi
Medvedenko - Stefano Moretti

in collaborazione con:   Festival dei 2 Mondi di Spoleto


Prima rappresentazione
Chiesa di San Simone, Spoleto
27 giugno 2009

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi

Personaggi senza passaporto, ovvero un "altro" Gabbiano


Fra i miei spettacoli c’è un solo Cechov, Tre sorelle, peraltro messo in scena in un modo abbastanza anomalo. Perché mai ritornare a quest’autore, allora? Il primo motivo è, per così dire, strutturale: quando ci riferiamo a testi elisabettiani o a Goldoni, per esempio, ci si rende conto che la convenzione teatrale è in loro talmente presente che non ci si pone neppure lontanamente il problema della verosimiglianza, dell’autenticità. Quando invece ci confrontiamo con la drammaturgia dell’Ottocento – Ibsen e Cechov, per esempio -, ma anche con molto teatro contemporaneo, ecco che le categorie della credibilità e della verosimiglianza sembrano imprescindibili. A me invece, da spettatore, pare che con il passare degli anni dalla creazione di questi testi, di questi personaggi, quel tipo di credibilità si trasformi in una falsa convenzione senza avere più nulla di originario. Oggi di fronte a uno spettacolo cecoviano non riesco minimamente a credere agli sforzi che si fanno per renderlo vero, autentico: mi sembra del tutto chimerico pensare di rintracciarvi delle figure umane, reali “come nella vita”. Qui a Spoleto lavorerò con degli attori su dei pezzi de Il gabbiano senza pensare alla rappresentazione di questo testo e senza affrontarli nell’ordine in cui sono stati scritti, ma raggruppandoli per temi, per esempio mettendo tutte in fila le scene in cui appare Masha senza pretendere di dare l’impressione che “veramente” quel giorno d’estate nella tenuta di Sorin… Sorin la sua tenuta non ce l’ha più, e quel mondo e quella società non esistono più. Ma allora che cosa c’è nel Gabbiano che voglio mettere in luce e che lo rende un “altro” Gabbiano rispetto alla tradizione? C’è che tutti i personaggi sono completamente viziati di teatro o di letteratura e che molte delle contrapposizioni usuali che vi vengono rappresentate – fra vecchi e giovani artisti; la madre cattiva e egoista e il figlio infelice – sono fasulle come lo è l’infelicità di Masha che, semmai, le offre la possibilità di diventare personaggio, di attirare l’attenzione su di sé. Intendiamoci: il “Gabbiano” è una commedia meravigliosa alla quale la pretesa verosimiglianza di cui dicevo crea un danno perché si sente che il tentativo di rendere credibile e accettabile qualche cosa è esattamente il contrario della ricchezza allo stato magmatico di un’opera nel momento in cui l’autore la progetta, la crea. Solitamente si pensa a questa commedia come a un testo sul teatro: in realtà qui si parla di letteratura, della scrittura e del teatro come letteratura non come evento scenico. In fondo la commedia che ha scritto Kostja (per me è lui il vero gabbiano non Nina) molto criticata dalla madre Arkadina è quanto di più letterario ci sia. Arkadina lo sa bene perché, al contrario di quanto si pensa, è veramente una grande attrice: se dà l’impressione di recitare nella vita è perché lei “non può” essere altro nella vita che la grande attrice che è. Nei frammenti che presentiamo a Spoleto mi preme, dunque, mettere in luce la profonda inautenticità dei personaggi che si riconoscono tali per un’identità che li differenzia dagli altri: l’identità di Kostja sta nel suo differenziarsi da Trigorin, quella di Nina nell’imitare Arkadina, quella di Masha nell’inventarsi dei sentimenti in modo romanzesco… In questo Gabbiano, in cui sarò Dorn, il dottore, farò qualcosa che ho fatto solo a Spoleto l’anno scorso con Ibsen: parlare in pubblico di quello che sto facendo mentre lo sto facendo e perché, dare le battute magari assumendo ruoli diversi mentre il pubblico assiste al nostro incontro con le difficoltà, i problemi posti da questo testo. Niente a che fare con una lezione: noi, con i nostri abiti di tutti i giorni, saremo in palcoscenico con le nostre parti a memoria ma lasciando spazio all’improvvisazione seppure all’interno di determinate regole. È un puro esperimento che magari potrà fare apparire il Gabbiano più greve e “cattivo” di quanto siamo abituati ad aspettarci da un testo di Cechov. Avere a che fare con il frammento permetterà inoltre agli attori ampi spazi di libertà: potranno rendersi conto che una cosa si può fare in cento modi diversi, ma mai arbitrari. Il mio compito sarà proprio quello di spingerli verso la maggiore libertà possibile, fargli comprendere, per esempio, che c’è un’enorme differenza fra una persona che nella vita è davvero infelice per amore e un personaggio teatrale che soffre per amore. Il personaggio è una funzione letteraria e, come tale, non ha il passaporto per la vita vera.
Luca Ronconi

Un solo Cechov, fin qui, nella storia teatrale di Ronconi, Tre sorelle. E adesso Il gabbiano. Perché? Il maestro lo spiega con la solita precisione, in questo caso estrema:
E’ un fatto di credibilità e di verosimiglianza. Cechov, come altri drammaturghi moderni o contemporanei, accusa il peso del tempo riguardo a canoni rappresentativi che continuano a cercare autenticità e verità, cioè la possibilità di catturare lo spettatore nella rete di una realtà di scena uguale alla realtà della vita. Ora io credo che gli anni abbiano invece definitivamente smontato queste istanze. In Cechov non è più possibile rintracciare personaggi e situazioni realmente quotidiani, veri come nella vita.
Smontaggio e rimontaggio?
A Spoleto non metteremo in scena Il gabbiano, bensì scene del testo raggruppate per temi, senza ordine cronologico. I personaggi non costruiranno l’impressione della verità. Non saranno cechoviani in senso tradizionale. Mostreranno piuttosto la loro (attuale) non autenticità. Abbatteranno le convenzioni.
Una lezione?
No. Parti a memoria, tutto in regola. Sarà un lavoro messo in palcoscenico nel suo farsi, esplicitamente. Parlerò del come e del perché, darò indicazione agli attori, assumerò io stesso ruoli diversi, in certi punti solleciterò l’improvvisazione, senza però consentire scarti rispetto ai canoni. Faremo davvero un altro Gabbiano. Cattivo, magari, dato che toglieremo alle figure di teatro la possibilità di essere credute figure umane.
Grandi scenografie, ambientazione complessa?
No. Il contrario. Semplicità assoluta. Niente costumi. Sedie su cui sederci. Voci. Il testo. La parola. Gli interpreti.
Intervista di Rita Sala
«Il Messaggero»
23 giugno 2009

Rassegna Stampa

Il successo più caldo – dieci minuti di applausi, tutto il pubblico in piedi – è toccato comunque a un’esperienza che non rientra nella categoria dello spettacolo in senso stretto: il laboratorio che Ronconi ha diretto sul Gabbiano di Cechov, lavorando con alcuni suoi attori abituali e altri che si sono uniti all’insolito percorso. Cosa si intende qui per laboratorio? Una strana creazione a metà strada fra un esito compiuto e una prova aperta: una ricerca sul testo, una serie di ipotesi da seguire a ruota libera, che forse non approderà mai davvero alla ribalta, ma che proprio per questo risulta più affascinante di una produzione definitiva. Il regista, che vi incarna anche con pungente ironia il ruolo di Dorn – il medico che osserva e chiosa gli avvenimenti – scompone e ricompone la vicenda, cambia l’ordine di certe scene, le ripete talora più volte, ricavandone ora toni beffardi, ora un approccio più sofferto e dolente. L’azione è frammentaria, discontinua: non ci sono costumi, non ci sono entrate o uscite che scandiscano una trama narrativa: i personaggi semplicemente si presentano quando arriva il loro turno, poi tornano in silenzio al proprio posto. All’origine c’è la constatazione che l’intero dramma ruota attorno allo scrivere o al recitare, che tutte le passioni dei personaggi sono mediate da ideali artistici artistici, il che imprime loro un che di istrionico, di parodistico. Ma al terzo e quarto atto la vita – o l’arte – reclama il dovuto: l’infelicità, prima solo esibita, diventa davvero soffocante, con fatali conseguenze.
Renato Palazzi
«Il Sole 24 ore»
5 luglio 2009