Dopo la messa in scena lo scorso anno di "Dio ne scampi dagli Orsenigo" di Vittorio Imbriani ecco ora "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" di Carlo Emilio Gadda: due autori “impossibili” dal linguaggio barocco, espressionista, molto studiato. Come si spiega? E’ sfiducia nella drammaturgia tradizionale o bisogno di allargare i confini?
Forse è proprio bisogno di allargare i confini. Non voglio dire che non esistano buoni testi per la rappresentazione, dico che spesso la drammaturgia e troppo soggetta ai condizionamenti di mercato. Vorrei più scambio tra palcoscenico e letteratura. Il palcoscenico dovrebbe sforzarsi di proporre molte più forme. Invece abbiamo una scena fissa, per facilitare il trasporto, tre soli personaggi per risparmiare. Così non si rende un buon servizio al teatro. Bisogna invece dire: guardate che si può fare di più.
E ricorrere ad un romanzo può allargare le prospettive?
Ritengo proprio di sì, faccio un esempio. Nel teatro italiano il dialogo e sempre stato qualcosa di problematico: noi ci ostiniamo a pensare che la base della drammaturgia sia il dialogo, ma si può comunicare anche al di là del dialogo. Esistono altre forme: il monologo, gli 'a parte'...Il materiale narrativo impone di esperire tutte queste possibilità e al tempo stesso permette di stimolare maggiormente la comunicazione tra platea e palcoscenico. Il trasferimento del Pasticciaccio sulla scena vuole essere anche la proposta di un possibile modello di drammaturgia contemporanea, intendendo per contemporaneo non tanto un’adesione alla realtà quotidiana, ma il modo attraverso il quale una storia viene rappresentata.
Questa è una linea che nel suo lavoro di regista ha già una storia.
Sì, è cominciata venticinque anni fa con "Orlando furioso" ed e continuata con
"Gli ultimi giorni dell’umanità".
Il suo lavoro é stato influenzato da "Palazzo degli ori", il trattamento cinematografico che Gadda stesso elaborò sulla base della trama del Pasticciaccio, o dalla sceneggiatura di "Un maledetto imbroglio", il film che Germi trasse dal romanzo?
No. Ho pensato questo lavoro in termini puramente teatrali, tanto che, pur avendo a disposizione diverse soluzioni, l’ho voluto mettere in scena all’Argentina: per ribadire il suo taglio, la sua chiave teatrale.
Con quale grado di fedeltà verso il romanzo?
Assoluto nei confronti del testo, ma con qualche libertà personale, necessaria per superare i limiti del personaggio e per allargare gli spazi. Si è tolto quello che c'era da togliere, ma si è mantenuta intatta la lingua e la struttura del romanzo. Non voglio che il Pasticciaccio portato sulla scena somigli ad una commedia sfilacciata; desidero al contrario che conservi intatta tutta la forza della pagina.
Quali motivi l’hanno spinta a mettere in scena il romanzo di Gadda?
Ce ne sono almeno un paio. Innanzi tutto il linguaggio e poi la presenza di un tema particolare a me molto caro: sentire il reale come possibilità.
Come può il linguaggio estremamente letterario di Gadda affascinare l’uomo
di teatro?
Si tratta di un linguaggio che presuppone la vocalità, la fisicità. Può risultare
difficile alla lettura, ma se lo si rende fisico, diventa più accessibile, più diretto.
Quale struttura formale può accogliere il complesso schema narrativo del
Pasticciaccio?
Mentre siamo prontissimi ad accettare tutto da un testo in cui la parola non ha importanza, quando la parola acquista un valore forte pensiamo immediatamente al teatro classico. In questo caso non può essere così. L'elemento portante è il linguaggio, ma la forma deve essere libera.
Quale ambientazione ha pensato per lo spettacolo?
In realtà non ci sarà un’ambientazione precisa. Ci saranno gli anni Trenta e il fascismo, non mancherà qualche cenno a Mussolini, ma somiglieranno ad appunti intermittenti della memoria. Sarebbe del tutto inutile riprodurre Roma: siamo all'Argentina, nel cuore della città! Perché si dovrebbe rappresentare la città sul palcoscenico. Credo che ogni forma di naturalismo bozzettistico vada evitata: la scena non si dovrà trasformare in una sorta di set cinematografico.