Mirra

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Le parole di Luca Ronconi


Personalmente non ho mai sentito finora l'urgenza di mettere in scena Alfieri. Non è un mio autore: l'anno scorso però, scegliendo un suo testo, l'Agamennone, per un lavoro con gli allievi della Scuola d'arte drammatica di Milano ho capito che rimetterlo in scena poteva avere una sua necessità. Improvvisamente mi sono trovato intrigato, parlandò con giovanissimi attori, dal problema della lingua alfieriana, dal suo verso, dalla sua scrittura. Così, quando lo Stabile di Torino mi ha offerto Di mettere in scena la Mirra, ho accettato, anche per il sottile piacere, che nel frattempo sì era fatto strada in me, di lavorare sulla mia lingua e non su una traduzione. Un problema che mi ha sempre affascinato, prima e dopo il laboratorio di Prato e che mi ha spinto a mettere in scena negli ultimi tempi Andreini, Goldoni, e appunto, Alfieri, alla luce di un itinerario teatrale che ha assunto sempre di più, per me, l'immagine di un viaggio dentro un autore, la sua lingua, la sua struttura.
Intervista di Maria Grazia Gregori
«L'Unità»
1 novembre 1988

Rassegna Stampa

dal Patalogo 11 (Ubulibri, Milano, 1988) 

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri


Al termine di una annata che ha riproposto con larghezza di prove (e talvolta carenza di motivazioni) le tragedie di Vittorio Alfieri fuori delle antologie scolastiche, Luca Ronconi ha presentato a Torino la sua intensissima Mirra. Il dramma della fanciulla condotta a morte dall'inconfessabile amore per il padre ha risuonato fra gli stucchi del Carignano come un geometrico mèlo da camera dove la parola è corpo del pathos. Mirraè una tragedia tremenda e forse la più 'bella' di Alfieri. La lingua è ovviamente quella sua che sempre conosciamo, avviluppata e sintetica, furiosamente tesa alla contrazione di qualcosa che non può prendere forma più distesa, sui diagrammi impazziti di sentimenti incommensurabili o di esperienze umane indicibilmente dense. Con tutto l'odor di retorica e di 'antipatia' che la scuola ha pesantemente contribuito a istillarci. Anzi, 'sistemato' in questo modo l'autore, restano poi i testi davanti ai quali ogni volta ci si sente sforniti di strumenti utili a leggerli. Almeno finché, ogni volta, non si compia una sorta di 'allineamento' con la sua lingua crepitante, così da poter cogliere lucidità e forza drammaturgica (e preciso congegno emotivo) alle asperità sintattiche e ritmiche. La tragedia di Mirra dura il breve spazio delle ore che precedono le nozze della fanciulla con un principe dell'Epiro che lei rifiuta, chiedendo anzi a tutti di aiutarla a morire perché già sposa di un amore assoluto, tanto violento quanto inconfessabile. Madre, nutrice, promesso sposo e soprattutto il padre sono sponda della sua riluttanza e della sua 'follia', ignari e increduli e ogni volta illusi di convincerla, in un crescendo parossistico in cui il destinatario di quell'amore deviante, e quindi il 'peccato' non viene rivelato. La verità esce fuori solo alla fine, in un dialogo disperato e stringente fra padre e figlia, in cui lei perde testa e parola fino a uccidersi con la spada e lui scopre la mostruosità di cui era, inconsapevole, il centro. Se il nostro interesse, pruriginoso o magari sensibilizzato dalle campagne sulla violenza sessuale, può privilegiare il tabù dell'incesto, per quanto qui pura proiezione e comunque in termini 'rovesciati', dalla figlia verso il padre, il dramma si sviluppa in altezza quasi prescindendo dalla materia specifica. Non sappiamo fin quasi all'ultimo perché Mirra scelga la strada di quella solitaria e cosciente devianza; si può intuire, certo, ma Alfieri insiste più sull'eroismo che non sulla colpa. E in pieno Settecento, con la rivoluzione ormai alle porte, la fanciulla assume direttamente i caratteri della trasgressione, di universale deviazione dalla norma. Ronconi asseconda, col suo abituale rispetto, il testo, senza schierarsi a priori. Lascia crescere la drammaticità che in un gioco di specchi rinvia dall'uno all'altro dei personaggi: a cominciare dalla nutrice (Ottavia Piccolo) che il pudore rende discreta fino a assumere funzione di straniamento in quel groviglio familiare che via via cambia contorni pittorici da David a Canova. La madre (Anita Bartolucci), nelle pose icastiche della sua disperazione assume a tratti stilizzazioni che dalla pittura preannunciano già il melodramma, dove affonda il suo impeto rischiando talvolta di eccedere. Molto misurato invece risulta il padre, dolente e complesso, interpretato da Remo Girone: dalla tenerezza al dolore all'orrore l'attore compie un percorso esemplare, scevro di psicologismi, sorta di depositario degli umani limiti, con la prova memorabile di quando, senza effetti facili, scopre che non è d'amor filiale l'abbraccio che Mirra gli stringe. In quel trascolorare di stanze, contenitori identici e asettici resi con eleganza da Carlo Diappi, appena mossi da qualche canapé, una grande trasformazione si è già compiuta. I costumi e le citazioni visuali già quasi 'napoleoniche', la scansione severa delle musiche di Gossec (scelte da Paolo Terni anche ad accompagnare il mancato imeneo), segnano un mondo che perde con Mirra la passione e la vita. La sua impossibile scelta di 'umanità' trionfa con la morte, come per un'esemplare eroina. E la grazia di Galatea Ranzi che la interpreta, acerba ma già densissima, è la impressionante epifania della serata (anche per chi l'aveva già applaudita, ambigua e inquietante, nel saggio di Andreini all'Accademia d'Arte Drammatica).
Gianfranco Capitta
«Il manifesto»
16 giugno 1988
La questione del come mettere in scena Alfieri oggi è tutta qui: esiste la possibilità che le oscurità o gli squilibri dei testi letti sulla pagina diventino chiarezza e energia sulla scena? Esiste: ma a patto di staccarsi da due o tre convenzioni ancora tentatrici. La convenzione letteraria, che considera quei testi come sacri monumenti e basta; la convenzione recitativa, che spesso sceglie il rifugio della declamazione pura; la convenzione del verso, che spesso è assunto nella musicalità esterna e non in quella interna, tormentata e drammatica. Di qui è partito Luca Ronconi nella regia di Mirra. Se ci si cala in profondità nel tessuto tragico, nel 'sottotesto' della tragedia alfieriana, se si riesce a trasformare la voce stessa degli attori in azione, se si ritrova il percorso di quella sintassi aspra, sincopata, dove il verso si spezza e si ricompone in altre unità: a quel punto la tragedia avrà mostrato il suo nucleo profondo, incredibilmente moderno, e avrà al tempo stesso rivelato forza e chiarezza. Ronconi fa recitare ai suoi attori i versi della Mirra in una chiave di abbacinante chiarezza: parole, frasi, versi, sono contornati e come isolati, scanditi in un ritmo dove tragicità non è concitazione ma al contrario lenta ricerca di una verità nascosta. Esattamente come per Mirra le parole sono uno schermo per nascondere la forza tremenda e proibita che scuote il suo essere, così le nitide parole degli attori sono la spia di superficie di quel che si agita nel loro profondo. In questa tragedia della forza dei sentimenti e della diplomazia crudele che ad essi impone la legge morale, il dialogo di dipana come sottile gioco di allusioni, di esplosioni sotterranee, di affioramenti di ciò che è negato e che si manifesta in forme indirette.
Renzo Tian
«Il Messaggero»
16 giugno 1988
Il massimo lavoro è stato condotto da Ronconi sul verso, col massimo risultato, rallentandone la pronuncia in modo di far risaltare ogni parola di queste costruzioni a volte precipitosamente sintetiche e tendenti all'accelerazione, ma di ogni parola si cerca di restituire le intenzioni in un'operazione non solo filologicamente esaltante.
Franco Quadri
«La Repubblica»
16 giugno 1988
Quando, nel primo incontro con Pereo, Mirra dichiara la sua intenzione di lasciare i genitori con i versi 'per sempre / abbandonarli;... e morir... di dolore', la Ranzi volta le spalle al pubblico e alza le braccia in alto, ma con un movimento rattrappito, contratto, quasi come una bambina capricciosa al limite di una crisi isterica: un momento teatrale che ti prende alla bocca dello stomaco. In quel momento ho capito perché Byron ha pianto a una rappresentazione della Mirra a Venezia.
Guido Almansi
«Panorama»
3 luglio 1988