La buona moglie

Autore:   Carlo Goldoni

Scene e costumi:   Lorenzo Ghiglia

Personaggi - Interpreti:
Nane, un giocoliere - Stelio Candelli
Un ragazzo - Carlo Cocchi
Menego Cainello - Attilio Duse
Bettina - Carla Gravina
Brighella - Giancarlo Maestri
Lelio - Gianni Musy
Beatrice - Ilaria Occhini
Pasqualino - Corrado Pani
Tita, un giocoliere - Raimondo Penne
Arlecchino - Luca Ronconi
Catte - Edda Valente
Ottavio, Marchese di Ripaverde - Gianmaria Volonté



Prima rappresentazione
Teatro Valle, Roma
11 dicembre 1963

Le parole di Luca Ronconi


Nel mio lavoro parto sempre dall’opera per poi risalire all’autore, mai il contrario. Quando ho messo in scena il mio primo Goldoni, molti storcevano il naso e dicevano: “ah, non è Goldoni”, ma invece “era” Goldoni, integralmente, parola per parola, proprio come lui l’aveva scritto. L’atteggiamento denigratorio nasceva dal fatto che la chiave interpretativa della "Putta onorata" e della "Buona moglie" era naturalistica e, in quegli anni, una regia naturalistica sembrava una profanazione, un delirio, un atto d’ignoranza. Eppure a me pareva che quello e non un altro fosse il modo di rappresentare questi due testi, tant’è vero che, anni dopo, per un’edizione televisiva li ho realizzati nello stesso, identico modo. Era anche la storia – una specie di Promessi sposi – a spingermi a questo: c’è una ragazza che sta sempre in casa e che si vuole conservare a tutti i costi illibata per un tizio, Pasqualino, che si rivela diverso da quello che è: non il figlio di un gondoliere, ma del borghese Pantalone. Una ragazza che alla fine farà un cattivo matrimonio: una storia deprimente. Certo, c’erano anche delle situazioni allegre e divertenti; ma c’era la necessità di mostrare la vicenda nella sua complessità e allora il lieto fine del primo testo – l’agnizione di Pasqualino da parte di Pantalone – porta con sé conseguenze molto dolorose per i protagonisti. Gian Maria voleva andare oltre questa lettura e mi accusava di essere moderato. Non era così: perché, pur spingendo la vicenda fino al limite, mi rifiutavo di introdurvi situazioni estranee al testo. Se un personaggio ha in sé germi di violenza, si può condurlo fino al punto in cui la violenza si manifesta: ma il rancore non si può trasformare in aggressività. L’atteggiamento iconoclasta di Volonté nasceva dall’idea che, essendo la scelta del testo volutamente – e provocatoriamente – accademica, bisognasse scassare Goldoni dalle fondamenta. Io, invece, pensavo che fosse sufficiente fare un Goldoni che si diversificasse dalle letture storicizzanti di Visconti e di Strehler. Ero contro la contemporaneità a tutti i costi, al Goldoni in abiti di oggi perché i due testi ruotavano intorno a un elemento drammatico così forte che, se lo si rendeva contemporaneo, si rischiava il melodramma. Ilaria, da parte sua, era contrariata di fare la marchesa, parte che interpretava benissimo e che per me era fondamentale, ed era dispiaciuta che il personaggio principale fosse toccato a Carla. Corrado era Pasqualino ma avrebbe voluto essere Lelio (“Mi corrisponde di più quel figlio di puttana,” diceva) che, invece, interpretava Volonté. Nella "Putta onorata" e nella "Buona moglie" c’erano Arlecchino e Pantalone, ma nessuno dei due personaggi portava la maschera: uno scandalo che provocò fastidio e un’alzata di spalle. Eppure, anche nei Goldoni messi in scena da Visconti le maschere non c’erano e quel tanto di nostalgico che comportava l’uso delle maschere fatto da Strehler era lontanissimo, inapplicabile ai testi realistici che avevo scelto. L’essere sottoproletario di Arlecchino o il suo rapporto con la moglie Catte erano impossibili da realizzare con la maschera.
a cura di Giovanni Agosti
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
(Feltrinelli, 2019)

Rassegna Stampa


Gli insuccessi che più mi toccano sono quelli del pubblico. Un autore può sbagliare, è umano, una compagnia di attori può essere male assortita e mal diretta, succede ancora, ma quando queste condizioni non si verificano, anzi la fama dell'autore è indiscutibile e la compagnia è formata di attori eccellenti, tutti a posto nella distribuzione delle parti, ben guidati, e varano uno spettacolo di rara perfezione stilistica, allora la colpa dell'insuccesso non può essere che nel pubblico. Ma come si fa a fischiare un pubblico? Soprattutto se non si fa vedere, se diserta lo spettacolo? Scoprite questo trucco e avremo risolto la crisi del teatro, che è un aspetto della crisi della cultura. Così, in queste settimane natalizie, piene di traffico e di panettoni, in questa bolgia del papà Natale catturato dall'industria e dal commercio, «La buona moglie» di Carlo Goldoni, messa in scena da Luca Ronconi al Valle di Roma (per la compagnia formata da Carla Gravina, Ilaria Occhini, Corrado Pani e Gianmaria Volonté), non ha avuto quel pubblico che meritava. Ci sarebbe da volerne capire i motivi, escludendo per un momento il pubblico. Forse, gli attori? Tutti hanno dato il meglio di loro stessi, in questa compagnia dei "più giovani". Vedendo «La buona moglie», cioè le due commedie che sono state unite sotto questo titolo (l’altra commedia è «La putta onorata»), risultava evidente la prudenza goldoniana, quel non andare sempre a fondo nelle situazioni, le brusche soluzioni moralistiche di qualche scena, lo spezzettamento che ne risulta alla fine. Si resta alla fine con la certezza che Goldoni fosse attratto dal sottobosco della sua commedia, ma che gli mancasse l’animo di frequentarlo, accontentandosi di prenderne appunti. Penso che la regia di Luca Ronconi, così misurata e severa, le straordinaria scena di Lorenzo Ghiglia, i costumi perfetti, persino le luci sempre un po’ corrusche e crepuscolari, quei canali che s’indovinano, quelle stradette e quei minuscoli salotti alla Longhi abbiano accentuato proprio queste perplessità del testo. Chi lo capisce, il pubblico? Va a teatro per vari motivi, anche per andare a teatro. Cioè, non ne ha la passione totale e nemmeno il vizio; e, purtroppo, su un pubblico virtuoso c'è poco da contare. Andrà a teatro per cose che non ci riguardano, snobismo, curiosità, imposizioni di attualità, non certo perché il teatro è anche un fatto culturale al quale chiedere nutrimento, un fatto da controllare e da tenere in continua riparazione. Sono certo che uno spettacolo come questo messo su da Luca Ronconi e dai suoi compagni conoscerebbe un riconoscente successo dovunque l'idea del teatro è rimasta legata allo sviluppo di una civiltà letteraria. Che sia passato quasi in silenzio, in un teatro reso persino brutto e ostile dai vuoti dei palchi e della platea, non può che addolorarci.
Ennio Flaiano
«L'Europeo»
Luca Ronconi, nell’assumersi l’incarico di dirigere un così complesso Goldoni, ha dato prova di notevole coraggio. Tanto più che fondendo in un solo spettacolo le due commedie, dopo averle accorciate e accomodate, egli si è trovato in mano un testo da un lato troppo scarno di lineamenti e dall’altro troppo denso di contrasti. Lo spettacolo di ieri sera è apparso scarsamente omogeneo, pur dovendosi riconoscere in esso una rara buona volontà e pregi, se non continui, in più punti assai generosi. Carla Gravina ha avuto modo di sfoggiare una notevole padronanza della scena e del dialetto, specialmente nel registro drammatico. Gian Maria Volonté ha ottenuto efficaci effetti comici, pur eccedendo nella caratterizzazione in chiave livida del marchese. Corrado Pani è stato un corretto Pasqualino, Edda Valente una colorita sorella Cate, Augusto Mastrantoni un patetico Pantalone. Da ricordare ancora il gassmaneggiante Gianni Musy; Ilaria Occhini nelle vesti della marchesa; lo stesso Luca Ronconi in un improbabile Arlecchino senza maschera. Il successo della serata è stato lieto; il pubblico ha applaudito anche a scena aperta dimostrando alla compagnia simpatia e fiducia. Simpatia e fiducia cui anche noi ci associamo, perché questi giovani, qualora raggiungano un maggiore affiatamento e scelgano con molta cura il loro repertorio possano ben figurare nel quadro del teatro italiano.
Renzo Tian
«Il Messaggero»
12 dicembre 1963
Il giovane Ronconi è alla sua prima fatica di regista e vi si è impegnato a fondo, mutuando dai suoi maggiori il gusto per le costruzioni complesse, per le grandi macchine teatrali, egregiamente servito da Lorenzo Ghiglia, che ha ricostruito per lui una intera città, viaggiante su carrelli che funzionano con insolita perfezione. Le perplessità che suscita questa messa in scena è una: se valga o no la pena di fare con le due commedie ciò che Strehler fece con la «Trilogia della villeggiatura». Se qui, in modo particolare, considerando soprattutto i pregi de «La putta onorata», convenga violare il clima e la misura goldoniana. Teatro gremito, clima di grande simpatia per questo complesso intonato ed equilibrato di giovani attori, applausi a scena aperta e moltissime chiamate.
Giorgio Prosperi
«Il Tempo»
12 dicembre 1963
«La buona moglie» e «La Putta onorata» che l’ha preceduta in una edizione ridotta hanno avuto per interpreti principali Carla Gravina, Ilaria Occhini, Corrado Pani, Gian Maria Volonté e per regista Luca Ronconi; ma del carattere e del valore di queste recite goldoniane non potremmo dare altro che un giudizio approssimativo, basato su elementi del tutto insufficienti, perché le necessità del giornale al quale le recensioni teatrali debbono essere consegnate prima del tocco dopo la mezzanotte, ci hanno costretto a lasciare lo spettacolo appena finita la sua prima parte, costituita da «La putta onorata», che è stata molta applaudita. Consapevoli delle condizioni di fretta in cui si trovano in Italia i critici dei giornali del mattino (in tutti i paesi dell’estero le recensioni vengono pubblicate ad almeno ventiquattro ore di distanza dallo spettacolo) le compagnie primarie che negli ultimi mesi hanno recitato nei teatri romani hanno permesso ai critici di esercitare la loro funzione con la necessaria ponderatezza. Invece la Compagnia Gravina–Occhini–Pani–Volonté ha creduto di rispondere negativamente alla nostra richiesta di poter assistere all’ultima prova, qualunque fosse la sua maturazione. Non è dunque colpa nostra se, sia pure con dispiacere, rimettiamo il giudizio sullo spettacolo a coloro che interverranno alle sue repliche.
Arnaldo Frateili
«Il Paese»
12 dicembre 1963
Chi oggi vedendo questa «Buona moglie», non avverte dietro l'apparenza di una gerarchia sociale di pura etichetta, il fatto essenziale: che la gente nuova di Goldoni era ormai padrona del campo? Goldoni pesca nella sua memoria personale rusteghi e nobili andati a male che ritroviamo nella descrizione del Marchese di Ripaverde della «Buona moglie» che Gian Maria Volontè ha magnificamente intuito e quasi sofferto. Con questo spettacolo ha esordito la compagnia di giovani che ha in ditta, oltre a Volontè, l'attore regista Luca Ronconi, Carla Gravina (un'appassionata, energica Bettina), Ilaria Occhini (una marchesa divertente e non meno slombata del marito), Corrado Pani (un trepido Pasqualino, vero "ingenuo" della commedia). L'esordio ci è parso positivo e una riuscita innegabile è proprio quell'aria di dramma sentimentale, di bozzetto dialettale ottocentesco, che parrebbe una stonatura in uno spettacolo goldoniano, ma che effettivamente esiste in questa storia ricalcata sulle trame e canovacci romanzeschi, intrighi, contrattempi, malintesi che erano ancora nell'aria e di cui Goldoni non si era ancora liberato. Eppure, riproposti dal Ronconi con gusto e coscienza di quel vecchio fondo romanzesco e sentimentale, i vecchi arnesi melodrammatici hanno per noi un curioso fascino, accresciuto certamente dal trovarsi in un contesto simile.
Sandro De Feo
«L'Espresso»