Infinities


Prima rappresentazione
Spazio Bovisa (ex laboratori del Teatro della Scala), Milano
08 marzo 2002

*Lo spettacolo è stato ripreso, sempre alla Bovisa, anche nella stagione teatrale successiva.

Foto / Bozzetti / Video


Rassegna Stampa

dal Patalogo 25 (Ubulibri, Milano, 2002) 

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri

 

La scienza e il teatro 

di John D. Barrow 

(da un incontro di John D. Barrow con giornalisti italiani - estratti dal programma di sala) 


Professor Barrow, ma quanti sono gli infiniti? Esistono modi e tipologie diversi di infinito. C'è l'infinito matematico, cioè l'infinito del calcolo o dell'impossibilità del calcolo. L'infinito fisico, con un'infinità di temperature e densità che stanno all'origine dell'universo. Infine, un infinito che ha un'accezione più religiosa, l'infinito trascendentale. I matematici sono soddisfatti di aver compreso il 'loro' concetto di infinito. Sanno come gestirlo combinando i vari infiniti, aggiungendo o sottraendo... Questo perché la matematica è una raccolta di tutti gli schemi possibili e immaginabili, dai più banali ai più complessi. Perché l'uomo possa esistere è necessario che l'universo abbia un ordine e, con esso, esistono anche alcuni di questi schemi. La matematica serve per descriverli. Non sorprende il fatto che il mondo, per poter essere compreso, abbia bisogno della matematica. Sorprende che modelli matematici così semplici siano in grado si scrivere un mondo così variegato, così complesso.
Renato Minore
«Il Messaggero»
La matematica è infinita: proprio come l'Universo? Per farsi un'idea dell'Universo, basta pensare alla matematica. Essa è infinita ed è il modo con cui funziona l'Universo. Ecco in un'affermazione ciò che da millenni i filosofi discutono, chiedendosi se la matematica è stata scoperta dall'uomo o se sia stata inventata. Ebbene, la matematica è la raccolta di tutti i possibili modelli, siano essi sotto forma di geometria, di rapporti tra numeri o modelli di idee... La matematica è il catalogo di tutti i modelli possibili. Per questo essa è, infinita, come i modelli che riscontriamo in natura. E un linguaggio che può essere esplorato, così come i poeti sperimentano la lingua dell'uomo e producono le loro creazioni artistiche.
Paola Federici
«La Padania»
A che punto eravamo rimasti con le teorie dell'astrofisica sull'universo? Fino al 1980 si pensava che l'universo, sorto da un nucleo oltremodo denso e caldo, fosse in decelerazione, il che implicava una contrazione. Dall'80 in qua pensiamo piuttosto che l'universo sia in accelerazione. Si parla infatti di 'inflazione': in pratica l'universo si starebbe gonfiando. Inoltre esso ha superato la 'soglia di non ritorno': continuerà a espandersi per sempre. Il che porterà alla fine della vita.
Marco Meschini
«Il Giornale»
Scientificamente parlando, in che cosa consiste il nuovo mistero del cosmo? È veramente una strana caratteristica quella dell'universo: in ogni momento, il suo saldo di energia è uguale a zero. Tutta la materia e tutte le radiazioni forniscono energia, dunque danno un 'più', un valore positivo. Ma l'attrazione esercitata fra di loro per via delle forze L'infinito applicato alla fisica e alla cosmologia è un concetto che ha anche interessanti agganci con la questione del libero arbitrio... Infatti un'altra delle scene, la terza, rappresenta proprio ciò che accade se si concepisce un universo infinito nel tempo e nello spazio. Per definizione, se l'Universo è, come credo, infinito nello spazio allora tutto ciò che ha una pur minima possibilità di accadere accadrà infinite volte. In altre regioni dell'universo ci sono in questo momento altri io e lei che stanno parlando della stessa cosa...
Luca Corra
«L'Unità»
E Dio, in tutto questo, che fine fa? E ancora plausibile? Abbiamo molti modelli di universo e di universi possibili. Nessuno di questi ci obbliga a includere Dio, né ad escluderlo. Di fatto, non lo sappiamo. Forse la scienza, un domani, potrà rispondere anche a questo.
Marco Meschini
«Il Giornale»
Gli studiosi dell'Universo come poeti: due linguaggi simili da usare con il gusto della libertà. In modo analogo vi sono matematici puri che utilizzano lo strumento matematico per esplorarlo in libertà, ampliando gli stessi modelli che troviamo nella natura. Essi sono stimolati dalla propria creatività tanto da scoprire la bellezza di alcuni modelli che appaiono miracolosamente appropriati per descrivere il funzionamento dell'Universo. Ed è questo il grande mistero per il quale la matematica è meravigliosamente utile nel descrivere, nella sua semplicità, le leggi che governano le galassie.
Paola Federici
«La Padania»
Come è nata l'idea di Infinities, ossia dei cinque paradossi che costituiscono il testo? Il primo a cui ho pensato, il più umano, è il paradosso della vita eterna. Tutti vorremmo vivere all'infinito, ma pensi alle complicazioni che sorgerebbero: assicurazioni che non saprebbero più come determinare il premio, la giustizia che si troverebbe impossibilitata a comminare pene proporzionate con l'eternità della vita; le religioni che si basano sulla promessa di una vita senza fine in scacco pure loro. Ma soprattutto ci troveremmo nella bizzarra situazione di vivere contemporaneamente con i nostri padri, nonni, bisnonni, trisavoli. La vita sarebbe una sequela infinita di consigli... Il peso dell'esperienza altrui su di noi sarebbe tale da renderci impossibile una vita libera.
Il tema della libertà a che fare anche con le nozioni più tecniche di infinito, per esempio in fisica e in cosmologia Infatti un'altra delle scene di Infinities rappresenta proprio ciò che accade se si concepisce un universo infinito nel tempo e nello spazio. Per definizione, se l'Universo è, come credo, infinito nello spazio, allora tutto ciò che ha una pur minima probabilità di accadere accadrà infinite volte. In altre regioni dell'Universo ci sono in questo momento altri io e lei che stanno parlando della stessa cosa.
Luca Carra
«L'Unità»
La quinta scena ha un titolo che è una domanda. 'Da dove viene questa commedia?'. Può spiegarci che cosa intende? Il titolo allude a quello che chiamo 'il paradosso dell'informazione'. Se, una volta immedesimatomi in un lavoro di Shakespeare e nei suoi personaggi, immagino di tornare indietro, incontrare Shakespeare ragazzino e raccontargli la commedia, mi trovo di fronte al paradosso della paternità dell'opera: io ho appreso la trama da Shakespeare, ma Shakespeare l'ha imparata da me... Questo è ciò che accade viaggiando nel tempo. La disposizione degli eventi nel tempo non è più univocamente suddivisa in passato e futuro, e quindi possiamo essere influenzati dall'informazione che arriva dal futuro come dal passato.
Giovanni Maria Pace
«La Repubblica»
Se un viaggio nel tempo è possibile, non dovrebbero essercene le prove? Possiamo ipotizzare che non si siano ancora sviluppate civiltà così avanzate da essere in grado di viaggiare. Oppure che, se sono esistite, non sono sopravvissute abbastanza da poter viaggiare nel tempo. Magari nessuno vuole visitarci perché siamo troppo noiosi. Un'altra possibilità ancora è che il viaggio nel tempo sia troppo pericoloso. Ci si aspetta solo un disastro, una distruzione di qualche aspetto dello spazio e del tempo tramite qualcosa che usa tutta l'energia disponibile. Solo le civiltà stupide ci provano e vengono distrutte, e quelle più sagge, che sopravvivono, sono quelle che decidono non valga la pena . Oppure le civiltà più sagge sono rette da contabili, i quali decidono che il viaggio nel tempo è troppo costoso
Barbara Caputo
«Il Mattino»
Oltre che nella fantascienza, i viaggi nel tempo hanno posto anche nella scienza? Quando, nel 1952, Kurt Gödel mostra che le equazioni di Einstein consentono i viaggi nel tempo, il padre della relatività rimane alquanto scosso perché pensava che la sua teoria escludesse una rotazione cosmica globale. La soluzione delle equazioni trovata da Gödel descriveva peraltro un universo matematico che non è per molti versi il nostro, in quanto ruota molto velocemente. Prevedeva però passaggi nei quali è concepibile avventurarsi con un'astronave e incontrare il passato.
Giovanni Maria Pace
«La Repubblica»
Che cosa si aspetta John Barrow dallo spettacolo di Ronconi? Non so davvero nulla di come il regista ha tradotto sul palcoscenico questi temi. E stata una mia decisione non interferire nella sceneggiatura. Ho discusso a lungo con Ronconi delle parti del mio testo che si prestavano meglio a una trasposizione sulla scena, ma non ho presenziato alle prove... Sono pronto a farmi sorprendere!
Luca Carra
«L'Unità»
Se Ronconi, negli anni, ci aveva abituato alle scommesse impossibili, ai doppi salti mortali di un teatro sempre proiettato oltre i propri limiti, questo Infinities è davvero una sfida che in qualche modo le trascende tutte, per la complessità del progetto, per la proibitiva difficoltà dei presupposti oltre che per l'eccezionale qualità del risultato: un autore che non è un autore, un testo vertiginosamente improbabile commissionato a uno scienziato, l'astrofisico inglese John D. Barrow, che con molta ironia ma anche con sorprendenti soprassalti di profondità ha tradotto in una sorta di embrionale linguaggio illustrativo una serie di paradossi logico-matematici intorno al concetto di infinito, rappresentati per giunta in uno spazio anomalo, nei labirintici edifici degli ex laboratori della Scala, alla Bovisa, con gruppi di spettatori che si spostano attraverso ambienti diversi. Ad aggiungere al tutto un ulteriore fattore imponderabile c'è il fatto che mentre il pubblico procede per seguire gli sviluppi dell'azione, la stessa scena viene immediatamente riproposta per dei nuovi entrati: e poiché molti degli attori sono impegnati in varie scene, gli interpreti cambiano via via a seconda dei momenti e delle circostanze, e con loro cambia anche impercettibilmente il canovaccio, in un gioco perversamente combinatorio che si può seguire come uno spettacolo nello spettacolo. A seconda di chi la recita, o di chi interloquisce con quest'ultimo, accade dunque che la prima delle cinque 'stazioni' in cui si articola il tragitto assuma ora un'intonazione didattica, ora invece un andamento imprevedibilmente comico, e poco dopo un'intonazione decisamente metafisica. Ne deriva una macchina teatrale in un certo senso quasi infinita, che è anche una quasi infinita antologia di archetipi ronconiani: in questo allestimento singolarmente scarno rispetto ai suoi standard - meno di un paio d'ore, ma il percorso andrebbe rifatto secondo curiosità personali - i segni tipici del regista sembrano esserci tutti, i carrelli mobili, le sedie a rotelle, il vagone ferroviario a grandezza naturale, le sottilissime maschere di lattice, e quell'enorme ambiente industriale dell'ultimo quadro, che fa tanto laboratorio di Prato, e ci riporta in un subitaneo e forse non volontario sussulto di memoria al clima di Ignorabìmus e della Torre di Hofmannsthal. E c'è anche, estremo paradosso, il particolare che uno spettacolo sull'infinito viene presentato in un assetto insolitamente e studiatamente 'non finito', con elementi scenografici sostanzialmente disadorni, e figure in abito di tutti i giorni accanto ai personaggi in costume vero e proprio, come se stavolta la densità dei contenuti avesse preteso una drastica precedenza sulla forma. E proviamo un po' a riassumerli, questi contenuti, anche se la loro descrizione - per chi non ha dimestichezza col calcolo - costituisce di sicuro la parte più ostica di questo resoconto. Il primo scenario proposto è quello dell'Albergo di Hilbert, matematico prussiano vissuto tra '800 e '900 che utilizza l'ossessiva immagine di un hotel dall'infinito numero di stanze - in cui dev'essere collocato un infinito numero di ospiti, senza che due di essi si trovino nella stessa stanza, o che una sola stanza resti libera - per dimostrare l'uso di matrici e numeri primi. Nello spaccato di uno stabile ridotto a guscio vuoto, tra fughe di porte che si illuminano su impervie balconate, le elaborate operazioni aritmetiche - cui intervengono zelanti fattorini e solerti addetti alle cucine - sono svolte dall'ineffabile direttore, che le visualizza su un grande tabellone luminoso. Il secondo si svolge in una sala scura e assai più angusta, dove inquietanti poltroncine aeree scorrono su binari attaccati al soffitto, e cadaveriche creature coi tratti sinistramente alterati dalle protesi di lattice, sdraiate su tavoli anatomici o sedute sotto incongrui caschi da parrucchiere, si addentrano a sviscerare le contraddizioni di una vita che duri all'infinito. Attingendo a molteplici fonti, da Swift all'imperatore Marco Aurelio, l'angoscioso orizzonte che Barrow prospetta è un'esistenza intollerabilmente uguale a se stessa, in cui è arduo comunicare perché si resta attaccati al linguaggio della propria giovinezza, in cui periodicamente occorre cancellare pezzi di memoria - come dal disco di un computer - e si è oppressi per giunta da un infinito numero di avi che pretendono di dire la loro. Poiché nessuno va in pensione, se ne esce soltanto col suicidio. Il terzo, probabilmente il più affascinante sul piano visivo, si svolge tra gli armadi del vecchio deposito costumi, e si ispira in parte ai temi della Biblioteca infinita e degli incontri col proprio doppio affrontati da Borges, in parte a teorie degli scienziati sudafricani Ellis e Bauter sull'esistenza di un numero di universi infinito, e dunque sull'infinita possibilità di trovare individui identici a noi. Il quarto ha luogo in una specie di grande aula spoglia dove corpi appesi al soffitto conferiscono risonanze da incubo alle formule scritte alla lavagna e un'agghiacciante mummia avvolta in garze bianche evoca Georg Cantar, genio matematico precipitato nella follia e nella depressione, che alla fine dell"800 cercò di offrire alla Chiesa un fondamento teorico al concetto di assoluto col suo teorema sugli 'infiniti numerabili'. L'ultimo, sulla scorta di Wells e altri autori di fantascienza, richiama le trappole mentali dei viaggi nel tempo. Ronconi traduce tutto ciò in una cifra espressiva straordinariamente stratificata e composita che mescola toni e intenzioni, alterna la rappresentazione alla pura enunciazione, sovrappone gli accenti didattici e quasi intenzionalmente dimostrativi alle improvvise accensioni visionarie, passa in un attimo dalla citazione brillante all'impervio spunto di pensiero, dallo humour svagato al brivido d'angoscia, e interseca i diversi livelli di comunicazione secondo le necessità del testo, e ha la lucidità ma anche il coraggio di farlo. E coraggio da vendere dimostrano gli attori, tutti bravissimi, da Graziano Piazza a Margherita Di Rauso, da Stefano Santospago a Clara Galante, da Francesco Colella a Mauro Malinverno a tutti gli allievi della Scuola del Piccolo, che si moltiplicano davvero all'infinito, cambiano 'in corsa' i loro personaggi, danno corpo e spessore a un materiale tra i più ardui da affrontare. Adesso, inevitabilmente, cominceranno le solite discussioni sull'effettiva utilità di simili proposte, sull'eccessiva ricercatezza dell'operazione e quant'altro. Personalmente, con tutta la comprensione per i nostalgici di Ibsen e di Goldoni, vorrei dire che Infinities è uno di quegli avvenimenti che spostano per sempre le frontiere del teatro, uno di quegli appuntamenti che capitano poche volte nella vita di uno spettatore, come era stato per Gli ultimi giorni dell'umanità al Lingotto di Torino. Ed è anche a suo modo uno spettacolo divertente come non se ne vedeva da tempo, in certi momenti a mio avviso persino esaltante per la sottile qualità dell'invenzione, per l'ampiezza delle implicazioni intellettuali, per l'uso assolutamente unico degli spazi. E potrebbe diventare, se il pubblico riuscirà a seguirlo col giusto atteggiamento, una forte scossa a certe pigrizie culturali di Milano, e non solo di Milano.
Renato Palazzi
«Il Sole 24 Ore»
10 marzo 2002