I Lunatici

Traduzione:   Luca Ronconi

Scene e costumi:   Carlo Tommasi

Personaggi - Interpreti:
Pedro - Aldo Bianchi
Alsemero - Mario Erpichini
Vermandero - Marisa Fabbri
De Flores - Sergio Fantoni
Beatrice Joanna - Valentina Fortunato
Alibius - Enzo Garinei
Una pazza - Luciana Giorgi
Secondo idiota - Mario Latini
Primo idiota - Roberto Latini
Jasperino - Ezio Marano
Secondo pazzo - Marzio Margine
Alonzo de Piraquo - Paolo Modugno
Franciscus - Ugo Maria Morosi
Tomazo de Piraquo - Giacomo Piperno
Diaphanta - Marisa Quattrini
Un pazzo - Franco Sabani
Terzo idiota - Caterina Zambarini



Prima rappresentazione
Cortile di Palazzo Ducale, Urbino
12 agosto 1966

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


Mi propongono un testo che non mi piace granché, la Comedia degli straccioni, ma con la possibilità di scegliere gli attori. E lì ho avuto un clic, un’illuminazione. Decido di accettare, ma a un patto. La sera avremmo recitato Annibal Caro, ma di giorno, con la stessa scena, la stessa compagnia, dunque praticamente senza costi, avremmo provato un testo al quale tenevo moltissimo: I lunatici di Middleton e Rowley. Mi dicono di sì e ci imbarchiamo nell’impresa disperata di fare contemporaneamente due cose. Per fortuna avevamo un organizzatore con i fiocchi, Erio Magnani, che si era formato al Piccolo Teatro e che, a quel tempo, collaborava con il Teatro di Roma. E poi c’era Paolo Radaelli, che mi aiutava moltissimo. Provavamo dalla mattina e fino alle quattro o alle cinque del pomeriggio I lunatici, poi salivamo in macchina e andavamo in giro per tutte le piazze delle Marche con la Comedia degli straccioni. Tempi eroici. Quando molti giovani, convinti che io sia un privilegiato, mi chiedono come si fa a fare teatro, a trovare i mezzi per farlo, è con cognizione di causa, e non per vezzo, che gli rispondo: ci si arrangia. Per risparmiare denaro e lavoro, I lunatici e il testo di Annibal Caro avevano la stessa scenografia, seppure completamente ribaltata, di Carlo Tommasi. Erano suoi anche i costumi, fatti di carta oleata dipinta e con imbottiture di teletta appiccicate sopra. La compagnia – Sergio Fantoni, Valentina Fortunato, Vittorio Sanipoli, Antonio Pierfederici, Mario Erpichini, Francesca Benedetti e, per la prima volta in un mio spettacolo, Marisa Fabbri – era piuttosto importante. Sergio era molto intrigato dai Lunatici che – ambientati metà in una corte e metà in un manicomio – gli sembravano ricordare il Marat/Sade di Weiss che si presentava proprio allora con un certo clamore. Valentina no. Aveva sempre l’aria di dire: “Va be’, ma tanto, poi, facciamo noi”. La prova generale a Urbino è un vero disastro; sembra di essere in televisione. Si pensa di fare slittare la prima, ma io mi intestardisco e provo con Sergio fino alle cinque del mattino. Alla sera, il suo, è un piccolo trionfo. La scelta dei Lunatici viene da lontano, da quella antologia elisabettiana (c’erano delle scene dei Lunatici e del Vendicatore) curata da Rebora, letta da ragazzo, che ho ancora, dove sta scritto “Luca ’48”. Più tardi avevo letto i saggi elisabettiani di Eliot ed ero rimasto colpito da un libro di Empson, Sette tipi di ambiguità. Probabilmente mi aveva anche influenzato la Storia della follia di Foucault. Ma lo spettacolo non era una banale applicazione di letture. Ad affascinarmi, nei Lunatici, erano l’erotismo forsennato del testo e il tema, intrecciato, del coraggio e della follia. Lo spettacolo riproponeva proprio questo – il teatro e il manicomio – come due momenti incastrati l’uno dentro l’altro, con il primo che si rifletteva nel secondo e viceversa. Fantoni si era buttato nell’esperienza, così nuova per lui, con coraggio, la Fortunato con diffidenza. Lo spettacolo poi andò bene, ma il vero trionfatore è stato proprio Sergio. Come regista ero riuscito a cavarmela, vincendo la resistenza degli attori, grazie al coraggio della disperazione: se non riuscivo a convincerli razionalmente, cercavo di mettere le cose in modo che andassero come volevo. E se i fatti mi hanno poi dato ragione, su di una cosa ho avuto torto e Paolo con me: pensavamo che lo spettacolo avrebbe avuto successo non per i motivi per cui poi realmente lo ha avuto – un approccio spiazzante al testo e un modo allora impensato di fare recitare gli attori – ma perché era divertente, pieno di porcherie e di gag. È stato dopo il successo dei Lunatici che Paolo ha cominciato a dire che avrei dovuto avere un mio gruppo. Succede che Sergio e Valentina, già allora marito e moglie, vogliono fare compagnia e pensano di riprendere I lunatici per quattro-cinque mesi in tournée. Rischiavano la loro notorietà, soprattutto Fantoni che si metteva su piazza con uno spettacolo che non corrispondeva assolutamente alla sua immagine televisiva. Ma il successo che aveva avuto, pur trasformato da bel ragazzo in mostro, credo che gli avesse dato una soddisfazione intellettuale molto forte, che lo aveva spinto a sostenere, a spada tratta, il progetto. La traduzione dei Lunatici era – nonostante quello che si legge sulla locandina – di Paolo, la riduzione mia. E proprio perché quelle parole le avevo scritte io in un determinato modo, mi sembrava che non si potessero dire che come le avevo pensate, con dentro tutti i pensieri che ci avevo fatto sopra, partendo proprio dall’intuizione che ci si trovava in un manicomio che conteneva una corte. Anche i personaggi rappresentavano questa duplicità: come ospiti del manicomio che recitano e come rappresentanti della corte, visti in modo raccapricciante. Molti citarono Artaud, ma le mie ascendenze non erano così nobili. No: io pensavo veramente che il pubblico si sarebbe divertito e che il risultato sarebbe stato semplice e diretto. Alle conseguenze ci ho pensato dopo, quando, all’indomani dello spettacolo, si cominciò a dibattere e si costituirono degli schieramenti, da cui io, secondo la mia natura, mi sono tenuto un po’ ai margini. In quegli stessi anni c’è stato il convegno di Ivrea. Anche in questo caso non mi è andato di schierarmi: infatti, non pensavo di fare “avanguardia”, perché a guidarmi nel lavoro più che una scelta di campo è sempre stata la voglia di misurarmi con quello che, di volta in volta, mi sembrava giusto fare. Il successo dei Lunatici aveva contribuito ad aumentare la fiducia in me stesso, che in verità non era mai venuta a mancare, neppure quando non battevo chiodo. Mi è sempre stato chiaro, infatti – e questo mi ha aiutato molto anche in seguito –, che la fiducia in sé stessi non va mai di pari passo con il riconoscimento che gli altri sono disposti a concederci per il nostro lavoro. La fiducia in me stesso, semmai, nasce dal piacere, dalla curiosità che sento una volta posto di fronte a un testo teatrale. Avere fiducia in sé non significa credere di essere chissà chi, ma nasce dall’impressione che, nel momento in cui leggo qualcosa, gli elementi di questo qualcosa, immediatamente, si dispongono in quel modo e non in un altro. La fiducia, insomma, mi viene dal testo stesso. Identica è la sicurezza che sento quando mi metto in rapporto in modo sereno con un palcoscenico, con gli attori con i quali lavoro, con quelli che mi stanno a guardare. E lo spettacolo che ne nasce è la visualizzazione del rapporto che ho con il testo, con gli attori che mi stanno di fronte, allo stesso modo in cui il progetto di uno spettacolo è sempre un’ipotesi costruita su uno spettatore. Naturalmente, siccome il pubblico è formato da più spettatori, può capitare che l’ipotesi sia giusta per la settima fila, ma non per l’ottava.
Luca Ronconi
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 112-120