Commedia della seduzione

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Le parole di Luca Ronconi


Quali sono i più grossi problemi coi quali il regista si è dovuto misurare?
Intanto la smisuratezza dello spettacolo, già insita nel testo. L'ho sfoltito, ho tolto poco meno di un quinto dell'originale: più di questo era impossibile. La commedia ha una architettura di simmetrie che non si può squilibrare. E poi c'è il particolare tipo di recitazione che essa richiede. Solo in apparenza ci troviamo dì fronte ad una commedia di conversazione e di comportamento: in realtà è un'opera fortemente tematizzata, ha una struttura musicale. Per la recitazione si deve trovare un registro non psicologico ma piuttosto simile a quello del 'Lied', della musica da camera. Siamo di fronte a personaggi che non riescono a 'pensare' quello che dicono, e questo può mettere in difficoltà l'attore italiano che ha abitudini di tipo raziocinante... Se si vuole mettere in scena un'opera per quello che è, può benissimo accadere che ne esca uno spettacolo che va oltre la durata canonica. Non è un ghiribizzo, l'opera non l'ho scritta io, è una conseguenza logica. Mi si chiederà perché non scelgo di fare dei testi diversi. Ma rispondo: perché la durata dev'essere il criterio determinante di uno spettacolo? Vogliamo vietarci di fare il secondo Faust o l'Orestea perché durano troppo? La commedia della seduzione è una 'summa' del mondo di Schnitzler, un po' come la Trilogia della villeggiatura di Goldoni. Si può rifiutare di accostarsi all'una, o all'altra: ma se si decide di metterle in scena non si può non prenderle per quelle che sono. Del resto anche l'idea dello 'spettatore medio' è una generalizzazione impropria: esso si forma sullo spettacolo medio. Personalmente non sono interessato a questo tipo di spettacolo.
Intervista di Renzo Tian
«Il Messaggero»
5 marzo 1985

«La Commedia della seduzione», invece, l’ho scelta per altre motivazioni che avevano innanzitutto a che fare con la sua dismisura, con le sue goffaggini, con la sua convenzionalità. Per il suo non essere perfetta, dunque, tanto da derivare da abbozzi di commedie non ancora scritte o già scritte. In un certo senso, anche in questo caso, era un modo per forzare i limiti del palcoscenico. Qui, però, non sono riuscito a ottenere quello che volevo. Mi interessava infatti raggiungere un modo di recitare che non avesse nulla a che fare con la commedia psicologica; ma la compagnia, pur formata da attori molto bravi, aveva altri obiettivi, immediatamente teatrali, da raggiungere. Io, invece, pensavo che tutto ruotasse intorno a una discontinuità stilistica che non ho saputo controllare né raggiungere, il che mi ha fatto perdere in qualche modo interesse per lo spettacolo. Eppure è stato proprio con la «Commedia della seduzione» che ho cercato di ottenere dagli attori un linguaggio parlato. Da lì il mio invito: vediamo come e dove si forma la parola e come la parola diventa eloquio e canto. Invito che però è rimasto in gran parte disatteso e che invece sono riuscito a condurre in porto con «Strano interludio».
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano, 2019, p. 252

Rassegna Stampa

dal Patalogo 8 (Ubulibri, Milano, 1985) 

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri


Riversando lo scambio di coppie di Girotondo nei giorni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, che qui viene dichiarata nel corso dell'ultimo atto, La commedia della seduzione di Schnitzler si ricollega idealmente agli Ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, la famosa kermesse dentro alla cronaca degli anni bellici di Vienna, che Ronconi ha avuto a lungo in animo di allestire. Ma in questa rappresentazione allusiva si evita il discorso politico diretto: vediamo piuttosto l'alta società mischiarsi con poeti, pittori, musicisti in un confronto continuo tra la realtà e l'arte che l'interpreta quando addirittura non l'ispira, un'arte al massimo livello di sviluppo in quel crocevia di una storica crisi. Consistano in effimeri approcci o in proiezioni eterne, gli avvenimenti, mossi comunque da velleità amorose, sono del resto costretti a misurarsi con archetipi artistici dove il motivo amatorio è in diverso grado presente: al ricorrere di citazioni del Don Giovanni di Mozart, fa eco il richiamo erotico della pittura della Secessione, sullo sfondo della tensione all'assoluto di Wagner. Basti pensare al fulcro del testo, l'amore tra la contessa Aurelie e il barone Falkenir, due grandi personaggi entrambi segnati da ombre luttuose nel passato familiare, i quali nel primo atto si scelgono per rifiutarsi subito proprio per la paura di un impegno assoluto, e si scelgono di nuovo alla fine, ma per cogliere nella morte comune l'unico sbocco a una passione aldilà dell'umano. Queste esasperazioni Schnitzler le dissemina peraltro in un contesto fiabesco, anche se rivisitato attraverso un bagno nella nascente psicanalisi. Così le tre donne che conducono l'azione, dal momento che si dimostrano le uniche capaci di decidere di loro stesse in piena libertà e coerenza, affidano a formule prese dalla favolistica i loro diktat nei riguardi dell'altro sesso; la fatale Aurelie, impersonata con alto stile e padronanza da grande attrice da Maddalena Crippa, la disperata Judith dell'acre, gelida Gabriella Zamparini, la trepida Seraphine della sensitiva e efficacissima Delia Boccardo s'incamminano verso un diverso destino che probabilmente solo per l'ultima di loro prevede un inquadramento reale, dopo aver sottoposto gli antagonisti a prove da Mille e una notte: enigmi matrimoniali tra tre pretendenti da sciogliersi di lì a tre mesi ai dodici rintocchi notturni, sogni d'amore da non ripetere aldilà della prima volta, avventure soggette al termine da definirsi dalla partner, appuntamenti in maschera col futuro concessi in bianco. E c'è colei che troverà la rivelazione della sua natura solo contemplandosi in un ritratto, e chi conquista la conoscenza dopo una veglia accanto al cadavere di chi non l'ha amata, e anche la nave di un principe azzurro su cui salpare "per sempre". Dai racconti di fate deriva anche il parco degl'incantesimi amorosi del prim'atto, da cui l'incastro delle vicende prende spunto, e la fantastica spiaggia tropicale in Danimarca dove si scioglieranno tutti i nodi. Sono due luoghi immaginari opposti e paralleli che giustamente Ronconi (grazie all'impianto di Margherita Palli) risolve con un identico gioco scenico: delle tavole scorrevoli, galleggianti sopra o intorno all'acqua, combinandosi tra loro con corredo di tapis roulants come nella kleistiana Käthchen von Heilbronn di Zurigo, mentre in un puzzle perpetuamente smontato e ricomposto vanno e vengono tra cespugli di drappeggi ponticelli, trouvailles neo-egizie, simboliche torri a orologio, e poi in un'atmosfera rarefatta un duplice e livido molo e un vetrato pavillon. In contrasto, l'atto centrale, con tre diversi quadri nelle case delle tre protagoniste, s'impernia su una stabilità quotidiana con la disposizione di radi mobili Jugendstil, sempre aldilà del velo di tulle che appanna e distanzia il grande affresco composito. Ma il momento figurativamente unitario dello straordinario spettacolo, sottolineato da una sapiente colonna musicale, viene dall'inquadramento dell'intera Commedia tra sipari tirati, di un pesante e translucido nero e in successione di più piani nei primi due atti, bianco sporco e in stoffa più aerea nel terzo. A seconda degl'incessanti movimenti delle cortine e delle diverse aperture in svarianti geometrie, si rovescia di continuo il quadro visivo, si sposta l'azione, la s'avvicina o la si allontana, si creano occasioni di simultaneità, in un gioco di sequenze di sapore cinematografico. Protagonista inarrivabile è la luce, a sua volta in perenne movimento nell'ideazione geniale di Sergio Rossi, trovando comunque la più forte e costante fonte d'incidenza da dietro il telone di fondo, che muta il suo colore abbacinante nelle tre fasi: da un blu vivido solcato di stelle nell'atto della speranza, a una violenza aranciata nell'atto della realtà, a un bianco azzurrato e lattiginoso da aurora nordica stemperata nell'angoscia di giorni senza notte nell'atto delle decisioni. Dallo splendido contesto figurativo, impreziosito dalla ricchezza elegante dei costumi e dall'occhieggiare a tratti di ironiche fronde, i personaggi emergono quindi controluce come sagome astratte. Ma a dispetto di questa estenuata stilizzazione, il recitato insegue precisioni naturalistiche in un'ostinata ansia del particolare. Accanto alle riuscite felicissime della Crippa e anche della Boccardo, spiccano i ritratti personalizzati con gusto da Mauro Avogadro, Giacomo Piperno, Giancarlo Prati, Daniela Margherita, Anita Laurenzi, dalla diligenza più attenta che creativa di Warner Bentivegna, dalla presenza importante di Massimo Popolizio; un po' smorto appare invece il poeta-testimone di Lino Capolicchio, mentre si registra qualche imbarazzo raggelante in alcuni giovani e una fastidiosa esibizione nevroticamente sopra le righe di Anita Bartolucci. Ma negli oltre due mesi di prova della sterminata pièce, tradotta alla perfezione da Eugenio Bernardi, il regista ha compiuto, più di sempre, un raro lavoro sugli attori e con gli attori, fermandosi in una ricerca maniacale del gesto e dell'intonazione, che resta alla base di quest'impressionante quadro di un'apocalisse. Solo così è riuscito a moltiplicare esemplarmente la tavola dei significati di un testo fino a oggi considerato 'maledetto' per la sua anomalia e la sua scomodità, fino a elevarlo a illuminante lettura di un'epoca.
Franco Quadri
«Panorama»
31 marzo 1985