Alcesti di Samuele


Prima rappresentazione
Teatro Argentina, Roma
13 aprile 1999

Foto / Bozzetti / Video


Rassegna Stampa

dal Patalogo 22 (Ubulibri, Milano, 1999) 

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri


Il nuovo testo parrebbe a prima vista continuare la ricerca sull'aggiornamento dei miti già condotta con la ripresa di Il lutto si addice ad Elettra di O'Neill, ma spiega anche il discusso Pirandello precedente e l'intero cartellone di quest'anno, tutto teso a interrogarsi sul senso del teatro: un quesito inevitabile per un artista di oggi, in un momento di crisi in cui la comunicazione cerca altre frontiere. Nella sua tragicommedia Savinio risponde che 'il teatro ha la facilità di compietare quello che la vita lascia incompleto'; ma è una definizione a sua volta consapevolmente incompleta, adeguata alla serie di battute irridenti e felicissime che cospargono la sua opera, barocca e strabordante di divagazioni e provocazioni; difatti anche questo lavoro, che si svolge in un teatro e ha l'autore tra i protagonisti, col suo travestimento da dibattito letterario, adempie a una missione civile nello scintillante itinerario che lo porta a scoprirsi un significato profondo. (...) E animando gli stimoli sorprendenti di un testo che sprizza intelligenza ma dimostra di saper coinvolgere più di un talk show, la sfida va a bersaglio anche sul piano politico planando in una attualità già storicizzata con preveggenza.
Franco Quadri
«La Repubblica»
15 aprile 1999
Di realmente folgorante mi pare ci sia soprattutto il monologo finale della moderna Alcesti, quel suo rifiuto rabbioso di farsi riportare alla vita, quel suo sinistro impulso di sottrarsi allo squallore della famigliola e di tornarsene nell'aldilà portandosi addirittura il marito. Ma per il resto, la sua visione della tragedia nazista e fascista suona insopportabilmente riduttiva, l'Olocausto per lui non va oltre un episodio personale, il dolore per il suicidio di un illustre amico, l'editore ebreo Angelo Formiggini. Più in generale, tutti i grandi temi sembrano spesso trattati al livello di pure facezie, nella chiave di un certo, svagato umorismo anni Trenta diluito però in una scrittura rigida, verbosa, sostanzialmente restia a ogni sforzo di piegarla a un qualsiasi intento interpretativo.
Renato Palazzi
«Il Sole 24 Ore»
18 aprile 1999
Nel Savinio di Alcesti di Samuele Ronconi ha trovato non poche affinità elettive, tra l'altro proprio sul senso del teatro oggi (anche se l'oggi di Savinio è profetico nel teatro del '900), dell'impossibilità di dare voce alla tragedia, di riproporla. Oltre al superamento della convenzione e dei personaggi, a cui si può aggiungere la presenza dell'autore o in forma di interpretazione della parte descrittiva (come nei Karamanzov e nel Pasticciaccio facendo dire agli attori dialoghi e parte narrativa); o, come prevede lo stesso Savinio, mettendo in scena proprio l'autore non solo personaggio di derivazione pirandelliana, ma testimone e responsabile delle logiche del processo drammaturgico. Altra affinità elettiva la suggerisce lo stesso Savinio nelle didascalie, l'uso di quelle macchine sceniche (qui disegnate da Marco Capuana) tanto care al nostro: dagli oggetti fuori scala, come il sesquipedale telefono che occupa il centro della scena e dell'attenzione, ai quadri che parlano con le teste vere degli attori e poi si frantumano a mostrare gli stessi, viventi ma fissi nella stessa posa, al Roosevelt che dalla cintola in giù è un piedistallo da monumento, una creatura ibrida, un po' come i 'poltrobabbi' e le 'poltromamme' mezzi uomini e mezze poltrone dei quadri di Savinio. Ronconi ha dotato Roosevelt monumento di se stesso di un motore che fa spostare Corrado Pani (il più bravo di tutti nel rendere divertito l'ottimismo invasivo e smaltato degli americani) veloce e silenzioso e telecomandato come un missile intelligente in palcoscenico. Profetico il testo nel dialogo tra Roosevelt e l'autore (un fin troppo civile e programmatico Franco Graziosi) con gli americani 'conquistatori ideali'. Su una dolly (Savinio non era arrivato a tanto) volteggia nell'oscurità il direttore del Kursaal dei morti (un vampiresco riuscitissimo Riccardo Bini dalla faccia imbiancata e ghignante) dove Roosevelt, Ercole in versione star and strip, è sceso a recuperare la recalcitrante Alcesti di questa tragedia che non si vuole fare.
Rita Cirio
«L'Espresso»
13 maggio 1999