Al Pappagallo Verde e La contessina Mizzi

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Le parole di Luca Ronconi


Chiusa l’esperienza di Prato, questo disagio del palcoscenico lo sentivo, se possibile, ancora più forte. Così, nel mettere in scena per lo Stabile di Genova, dove Ivo Chiesa mi aveva invitato, «Al pappagallo verde» di Schnitzler, ho addirittura pensato di abolire il palcoscenico, foderandolo di nero dappertutto e facendo apparire i personaggi come figure che escono dal buio. In questa scelta, per la verità, mi avevano aiutato le molte domande che il testo faceva nascere, soprattutto quelle legate alla sua messinscena. Se lo si rappresenta realisticamente, infatti, si rischia di trasformarlo in un feuilleton sulla Rivoluzione francese; se gli si dà una chiave nostalgica, diventa una specie di addio, qualcosa di iettatorio sulla fine dell’Austria felix, che non c’entra per nulla con l’epoca in cui il testo è ambientato. Per questo ho scelto la strada dell’indeterminatezza, vedendo lo spettacolo come qualcosa che effettivamente andava a perdersi senza punti di riferimento. Del resto per i personaggi di Schnitzler – lo diceva anche, mi pare, Paolo Chiarini – l’esistenza è come l’attrito che fa l’aria sulla foglia che cade. Sono personaggi che abitano una costruzione solida ma che si sfanno. Un’inconsistenza allo stato nascente ben rappresentata, mi sembrava, da chi esce dall’ombra solo per quell’attimo che gli serve a dire la propria battuta, per poi tornare a essere inghiottito dal buio.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 251-252