Falstaff

di:   Arrigo Boito
Musica:   Giuseppe Verdi

Personaggi - Interpreti:
Sir John Falstaff (I cast) - Ruggero Raimondi
Sir John Falstaff (II cast) - Giorgio Surian
Fenton - Daniil Shtoda
Dr. Cajus - Carlo Bosi
Bardolfo - Gianluca Floris
Pistola - Luigi Roni
Mrs. Alice Ford - Barbara Frittoli
Mrs. Alice Ford (II cast) - Serena Farnocchia
Nannetta - Mariola Cantarero
Nannetta (II cast) - Gemma Bertagnolli
Mrs. Quickly - Elena Zilio
Mrs. Meg Page - Laura Polverelli

Maestro direttore e concertatore:   Zubin Metha
Maestro del coro:   Piero Monti

Scene:   Margherita Palli
Costumi:   Carlo Diappi
Luci:   Guido Levi


Allestimento:   Maggio Musicale Fiorentino


Prima rappresentazione
Teatro Comunale, Firenze
12 maggio 2006

Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi

Per Ronconi un Falstaff moderno Elfi e fate come i giovani d'oggi


La partitura verdiana pone di continuo domande ai suoi interpreti, e anche in queste sollecitazioni sta la sua modernità. Lavorando alla regia, m'interrogo spesso sull'ambivalenza della sua leggerezza: mi chiedo cioè se la leggerezza della sua musica descriva l' azione o se corrisponda allo spirito con cui il compositore guarda dall' esterno la vicenda. Più che un'attualizzazione è una generica ambientazione moderna, con gente vestita in modo pratico e casuale. Saranno invece modaioli i folletti, le fate e gli spiriti, che riflettono le giovani generazioni. Falstaff, per sua natura, può prescindere da collocazioni in epoche precise, al contrario di opere come Don Carlo e La battaglia di Legnano, che evocano fatti storici. Una storia come questa, dove borghesi parvenu si prendono gioco di un aristocratico decaduto, potrebbe accadere, oltre che nel Seicento, in altri secoli o oggi. Ci sono sia commedie goldoniane sia testi teatrali ottocenteschi che seguono lo stesso schema. E anche il versante erotico, quello di un vecchio gaudente illuso di piacere ancora alle donne, non è una prerogativa del diciottesimo secolo. Solo il mondo degli elfi e delle fate richiama una specifica tradizione inglese remota, quella elisabettiana del mask. Nello spettacolo diventerà un' allucinazione di Falstaff, dove fate e folletti si mascherano nel modo in cui si conciano certi ragazzi d' oggi. Forse è una sorta di rave-party... Un senso della fine la pervade l'opera, ma con sapienza, tenerezza, disincanto. Vorrei che emergesse senza diminuire la portata comica dell'opera, attraversata da una vena di cattiveria anglosassone che non deve diventare pesantezza. Ma la comicità non dev'essere farsa: escludo connotazioni caricaturali e grottesche. Cerco di perseguire credibilità e naturalezza.
Leonetta Bentivoglio
«La Repubblica»
8 maggio 2006

Attualizzare? E' un fatto di gusto


Che roba è il Falstaff, al di fuori dello spirito elisabettiano? Io cerco di rappresentare l'oggettività dell'evento – la mascherata giovanile – e nello stesso tempo il mondo lo percepisce come il protagonista: un mondo avverso. E piuttosto che quelle quattro signore facciano quel che fanno solo perchè sono allegre (più che allegre, stupide), non è meglio pensare all'origine della beffa sia la loro contrarietà di non essere destinatarie di certe attenzioni, anche non sgradite di Falstaff? Il difficile è trovare l'equilibrio tra la situazione comica, senza cadere nel ridicolo, e l'oggettività di malinconia, quasi di cattiveria. […] Per la descrizione il testo è già abbastanza dettagliato, quindi la leggerezza della musica è lo sguardo dell'autore piuttosto che il pedeissequo seguire la vicenda. L'interrogazione è, alla musica, cosa sei rispetto al testo? Che Falstaff sarà allora? Falstaff che va a farsi bello, se lo fa in abiti elisabettiani, probabilmente si leva un abito di fustagno e si mette il velluto. Qui invece si vedrà un signore di una certa età che si vede da giovanotto: si rende più appetibile, e l'appetibilità coincide con la gioventù. Se fai questo in abiti rinascimentali, non si legge. Vedere un vecchio trippone che si veste alla moda da giovanotto è indubbiamente più patetico che vedere uno che cambia fustagno con velluto. Il motivo dell'attualizzazione non è fatto di gusto, ma di lettura.
Stefano Lombardi Vallauri
«L'Unità»
10 maggio 2006

Falstaff Ronconi e la nuova sfida con Verdi 'Macché farsa, è un'opera cattiva'


Falstaff è un' opera così scoperta da non aver bisogno di chissà quale rilettura. E' anche vero, però, che la vicenda raccontata da Verdi e Arrigo Boito, complice Shakespeare, non è ad esclusivo uso e consumo del mondo elisabettiano. Qui non siamo di fronte ad un'opera legata a doppio filo ad epoche e temperature storiche precise e inderogabili, come Aida o Otello: a ben vedere i personaggi ci somigliano molto, potremmo essere noi, oggi, come attuale è lo spasmodico desiderio di ringiovanimento erotico del protagonista, su cui si focalizza il desiderio di raggiro (o di vendetta) di un gruppo di signore che non si capisce se siano più allegre, come diceva il titolo shakespeariano, o più ciniche, come invece appare a noi. Da qui, dunque, l'idea di rinunciare all'ambientazione elisabettiana (che, invece, rispettai nell' allestimento di Salisburgo) e di preferire costumi con evidenti riferimenti all'oggi. […] La comicità è un risultato, l'allegria è una condizione. Qui si ride alle spalle di qualcuno, con sarcasmo. Quindi non me la sentirei di garantire la riuscita di Falstaff come opera comica. Né tantomeno è una farsa volgare, da osteria. E' in realtà un'opera molto, molto cattiva, sarcastica. E in effetti c' è una sottile rispondenza tra il pensiero di Savinio e una delle idee che stanno alla base dell' allestimento fiorentino: il senso di morte, vissuto però con la saggezza e il disincanto della vecchiaia, quando lasciare per sempre questo mondo ormai non sembra più così terribile. Shakespeare stesso ci racconta Falstaff sul suo letto di morte nell'Enrico V, per voce di Quickly: ed è una pagina commovente, di grande tenerezza, di toccante compassione. Nelle fonti, dunque, c' è un cammino di questo personaggio dalla comicità alla tragedia che possiamo rintracciare anche in Verdi e che ci aiuterebbe a spiegare quell' epilogo così irreale e fiabesco dell'opera. Nell'ultimo atto assistiamo ad un salto d' ambientazione che crea problemi nella messinscena: da una chiave realistica si passa ad una dimensione fantastica, ad un mondo di elfi che, se apparteneva alla cultura elisabettiana, era senza dubbio estraneo a quella verdiana. Non è illegittimo immaginare che quel brusco cambio di tono sia una soggettiva delirante di Falstaff: inchiodato al suo letto di morte, in preda alla febbre dopo essere stato gettato nel Tamigi nella cesta dei panni sporchi, si abbandona alle visioni, forse agli incubi che preludono alla fine estrema. Uno scarto d'atmosfera che, prima ancora di verificarsi sulla scena, avviene all'interno del personaggio, e come tale va rappresentato.
Falstaff è anche un'opera di scontri: tra uomini e donne, tra giovani e vecchi.
E qui sta il fulcro della sua comicità. Se immaginiamo il protagonista come un nobile decaduto e a questo aggiungiamo il suo essere un improbabile Don Giovanni senile in cerca d'amore con donne attempate, allora risulta più credibile la beffa ai suoi danni, ordita da un gruppo di borghesotti arricchiti e parvenu. Lo scarto d' età e di ceto sociale fra lui e le comari, fa di Falstaff qualcosa di più del solito pancione sessuomane: un personaggio patetico e divertente. L'idea degli abiti moderni ci aiuta molto nell'evidenziare le differenze generazionali, sociali e la decadenza del protagonista.
«Tutto nel mondo è burla», fa dire Verdi ai suoi personaggi alla fine dell'opera. Dietro questa affermazione si può intravedere l'allusione ad un mondo in decadenza, in coincidenza con la fine di un secolo, l' Ottocento?
Non me la sentirei di dare una lettura sociologica di Falstaff: sarebbe una scusa troppo semplice per poi metterla in scena con riferimenti allo sgretolamento impietoso degli ideali a cui stiamo assistendo oggi. Falstaff non è un'opera che parla della fine della società, ma della crisi del melodramma, e in questo è da considerare uno snodo importante nella storia della lirica, un punto di non ritorno con cui i futuri compositori dovranno confrontarsi, senza scampo. C'è una modernità dei caratteri, senza dubbio, ma la portata rivoluzionaria è altrove: Falstaff è un'opera che risolve in maniera egregia i problemi di drammaturgia rimasti fino ad allora aperti, insoluti. Come non scorgere, nei tratti nostalgici e malinconici di cui è ricco questo capolavoro, vere e proprie premonizioni della commedia musicale straussiana, vedi Rosenkavalier?
Cosa lega Luca Ronconi a Verdi, compositore che attraversa come un filo rosso tutta la sua carriera?
Non è semplice spiegarlo, anche perché dovrei scindere il Ronconi uomo, appassionato d'opera e spettatore, dal regista. L'uomo è soggiogato dalla musica. Il regista accetta la sfida che ogni opera verdiana comporta. Perché Verdi ti mette alla prova. Se, infatti, Rossini, Bellini o Donizetti non forniscono al regista nessuna indicazione precisa, anzi, nelle loro opere senti la totale indifferenza nei confronti dell'adesione o del tradimento degli esecutori, in Verdi c' è un' attenzione totale alla messinscena. C'è un senso del teatro fortissimo, che ti bracca. Il percorso del teatro moderno, dunque, non poteva non interferire, o meglio, entrare in attrito con la pesante eredità dell' autore che grava su ogni sua opera. E' stato questo senso di sfida a spingermi al confronto con Verdi, e in quest' operazione considero esemplari due spettacoli fiorentini. Il Nabucco, andato in scena nel 1977 con i suoi riferimenti alle lotte risorgimentali, e il Trovatore, allestito nello stesso anno, una regia in cui focalizzavo la mia attenzione non tanto sul legame tra Manrico e la vistosa figura della zingara Azucena, ma sullo strano rapporto tra Leonora, Manrico e il Conte, immerso in una notte perenne di plenilunio e fuoco. Compito di un regista è anche quello di mettere in luce la vitalità di un' opera o di un testo, rilevare quello che il tempo aggiunge e che non è presente nell'idea originaria dell'autore.
Fulvia Paloscia
«L'Unità»
18 aprile 2006

Rassegna Stampa

Anche un rave party nel Falstaff di Mehta

Falstaff è attuale perché ci fa capire le appartenenze sociali, l'accanimento conto la vecchiaia» commenta Ronconi. Non c'è da stupirsi che Bardolfo (Gianluca Floris) e Pistola (Luigi Roni) appaiano sulla scena (l'Osteria della Giarrettiera divisa in due piani: una catasta di botti sulla strada e, sopra la camera di Falstaff) vestiti come due punk, giubbotti di jeans chiodati. Le comari tramano per burlare e vendicarsi dell'intraprendente corteggiatore in abiti fioriti con borsette di Ferragamo, come quelli delle esilaranti signore degli sketch della Bbc. Molta ironia british, un po' di cattiveria e tanta melanconia. Scelta la trasposizione in tempi attuali, Ronconi con la scenografa Margherita Palli, regala un coup de théâtre nel finale tutto elfi e fate immaginato come un rave party nei boschi.
Laura Dubini
«Corriere della sera»
13 maggio 2006

Falstaff sogna le fate punk

Le vesti pastello fashion Windsor delle dame, gli uomini tra working class e borghesia della City, come in una pièce di Pinter o di Beckett e, alla fine, le fate e gli elfi punk, perchè la conservatrice Albione è anche la patria del Punk. […] Il finale è bello con la fusione dei due ultimi quadri, la féerie concepita come un sogno di Falstaff, con l'entrare dalle finestre dell'Osteria della Giarrettiera dei rami della foresta che poi invaderà la scena (e qui i riferimenti figurativi ci sono sembrati altri, ma sempre inglesi, compresa un'iconografia shakesperiana festosamente fiabesca alla Joshua Reynolds).
Elisabetta Torselli
«L'Unità»
14 maggio 2006

Very pittoresco questo Falstaff tra elfi e punk

Entro una molto shakesperiana divisione dello spazio in due livelli (Osteria della Giarrettiera e camera di Falstaff […]), vengono evocate mode tipicamente albioniche […]. Ingegnoso teatro di macchine alla Ronconi e forse omaggio al masque alisabettiano con la sontuosa visualità.
Elisabetta Torselli
«L'Unità»
14 maggio 2006