Nomina a Direttore del Teatro Stabile di Torino


Le parole di Luca Ronconi


L'aspetto forse più curioso della nomina di Luca Ronconi a direttore dello Stabile di Torino è il coro di consigli, avvertimenti e difese d'ufficio (difficile distinguere gli uni dalle altre) che hanno accompagnato il suo arrivo. Non si è trattato - bisogna ammetterlo - di una profonda riflessione; resta però, nell'arco dell'annata teatrale, la cosa più simile a un dibattito sul tema "Il teatro pubblico: funzione e prospettive" (ovvero: "I mille e uno doveri di un neo-direttore"). Si parte con un primo incontro preliminare tra Ronconi e il "vertice dell'Ente". Incontro ovviamente "segretissimo". Ovviamente seguito da una specie di conferenza stampa: "Sono state poste tre questioni: la permanenza di Ronconi a Torino nei due anni di mandato; il rispetto dei vincoli di bilancio (chiuso quest'anno a quota quattordici miliardi), il rilancio dei compiti istituzionali dell'Ente pubblico: attività regionale, integrazione con le istituzioni culturali della città, Università e Centro studi in testa. Sulle prime due questioni Luca Ronconi risponde esplicito e telegrafico:
Non ho intenzione di fare il direttore per telefono. Per quel che riguarda i vincoli di bilancio, è implicito che un direttore si deve impegnare a rispettarli. Sulla terza questione risponde più ampio: è compito di un Teatro Stabile non è solo quello di allineare una serie di spettacoli né limitarsi a fare un buon cartellone. Uno stabile deve instaurare un rapporto organico e non occasionale con il proprio pubblico, capirlo e incrementarlo. Questo significa necessariamente impegnarsi in un lavoro sul territorio, ovvero utilizzare in primo luogo anche le istituzioni culturali.
Intervista di Pino Corrias
«La Stampa»
15 novembre 1988

È l'inizio di una casa - dice guardingo il regista - . Il resto si vedrà. Ho deciso di dirigere lo stabile torinese perché mi sembrava che almeno ci fossero le condizioni per gettare le fondamenta. Non mi interessa la poltrona per la poltrona. Del resto sono sempre stato un uomo di palcoscenico, la mia vita è passata entrando e uscendo dai teatri dalla mattina a sera tardi. Avrei potuto benissimo continuare a vivere così in giro per il mondo. E invece...
Cosa vuol dire per lei avere concretamente una 'casa' teatrale?
Per me vuol dire un luogo in cui stanno persone che sì stimano, che vogliono lavorare insieme e che, magari, si vogliono anche bene. Avere una casa in teatro vuol dire arrivare a costituire un ensemble permanente, un gruppo di attori, tecnici, funzionari, riuniti attorno a qualcosa in cui tutti credono e in cui ognuno ha le sue responsabilità. Anche se so - non sono così sprovveduto - che due anni sono pochi per tutto questo e che ce ne vorrebbero di più. Ma se mai si comincia... Avere una casa vuol dire potere progettare a lungo e medio termine.
Che cosa vuol dire in questo caso progetto?
Vuol dire pensare non solo a degli spettacoli, a dei titoli. Vuol dire pensare non solo 'stagionalmente' ma su un arco di tempo più lungo. Vuol dire 'anche' risparmiare: perché se is hanno le idee chiare l'accordo per realizzarle e un certo tempismo si può fare di tutto anche senza sprechi.
Ha già in mente autori, testi, registi, attori su cui e con cui intende lavorare?
Senza dirle dei titoli e dei nomi precisi posso però spiegarle le linee lungo le quali vorrei muovermi: spettacoli in abbonamento; progetti speciali; coproduzioni con festival stranieri e con altri teatri d'Europa. Gli spettacoli in abbonamento, dedicati alla drammaturgia del Novecento, saranno agili, messi in scena da altri o da me perché non ho proprio l'intenzione, dirigendo un teatro, di fare l'asso pigliatutto. I progetti speciali, invece, si concentreranno attorno alla drammaturgia contemporanea italiana e no. Mi piacerebbe che Torino diventasse un luogo per gli scrittori di oggi, di vera e propria collaborazione un po' come ho fatto con Rodolfo Wilcock qualche anno fa per XX e con Edoardo Sanguineti per Orlando Furioso. I rapporti con i festival o i teatri stranieri, che bisogna cominciare ad attivare, verteranno, invece, su di un periodo del teatro classico, una specie di lente di ingrandimento, visto da più voci.
Lei è sempre stato in politica teatrale un tenace assertore della stanzialità; come pensa di conciliare questa sua propensione dirigendo un teatro stabile?
Con progetti differenziati. E vero, io non sono mai stato un grande fautore della tournée, diciamo che ho un modo un po ' tedesco di pensare al teatro. Mi rendo conto, però che un teatro stabile italiano ha altre esigenze: per esempio il bisogno di una presenza nel territorio. Penso allora di diversificare il mio programma fra spettacoli fatti per girare e altri da lasciare stanziali.
Ultimamente il suo modo di fare teatro e le riflessioni che lo hanno accompagnato mettevano in primo piano la ricerca di un rapporto con un pubblico non indiscriminato, da individuare...
Ci penso ancora. L'idea è quella di fare qualcosa di preciso per un pubblico particolare, di una città o di una regione particolare ma senza dialettismi, senza chiusure. Se poi la sua è una domanda birichina e lei vuole chiedermi se una volta arrivato a Torino mi metterò a sperimentare nuove teorie sulla comunicazione le dico di no; semmai potrebbe essere una conseguenza, non il motore di tutto. Oggi io devo fare i conti con delle situazioni concrete: bilanci, consigli d'amministrazione, di cui sono responsabile in prima persona. Quindi il mio programma avrà delle priorità: prima gli spettacoli in abbonamento, poi il resto se ci saranno i soldi e se li sapremo trovare. Non sono un sognatore, ma non faccio neppure marcia indietro rispetto alla mia storia. Ma un conto è essere un regista che va a lavorare da qualcuno, un conto è un regista che deve rispondere di un teatro.
Ma il posto di un regista non è stare giù in platea di fronte ai suoi attori?
Un regista sta in platea perché è lì che crea. Ma può stare dietro una scrivania se gli uffici e il palcoscenico non sono ideologiacamente lontani, se sono complementari. A Torino lavorerò per questo; è una speranza, perché sento questo mio nuovo ruolo come un grande impegno: non voglio un'assoluta libertà - non sono un monarca - e non ho chiesto neanche garanzìe. Ho solo risposto con fiducia a una proposta. Quel che è certo, senza tradire me stesso e quindi - lo dico senza superbia per carità, ed anche per me è una sfida - con la voglia di aiutare a cambiare qualcosa in questo nostro teatro pubblico, in questo mondo che oggi è anche mio.
Intervista di Maria Grazia Gregori
«L'Unità»
25 gennaio 1989

Rassegna Stampa

 

Dal Patalogo 12 (Ubulibri, Milano, 1989)

per gentile concessione dell'Associazione Ubu per Franco Quadri

Subito dopo i lavoratori dello Stabile, - che pochi giorni prima avevano censurato Gregoretti e la sua gestione ("Abbiamo strutture e uomini per viaggiare come una portaerei e invece siamo costretti a tenerci a galla come una qualsiasi barchetta": «La Stampa», 28 ottobre 1988), esprimono il loro gradimento al neo-direttore, invitandolo però, "sulla scorta di concrete motivazioni professionali, a considerare gli elementi interni del Teatro Stabile in grado di affrontare tutte le nuove (si sottolinea 'nuove') situazioni che il cambio di disciplina verrebbe a creare" («La Stampa», 17 novembre 1988)

All'atto della nomina, un mese più tardi, si scatena un vero fuoco d'artificio di pareri e "dritte", doverosamente riportati dalla «La Stampa» il 20 dicembre.

Nico Orengo (Pri): "Attenzione, uno come Gregoretti poteva rompere una tazza, Ronconi potrebbe rompere l'intero servizio".

Maria Pia Bonanate (Dc): "Lo Stabile ha bisogno di un direttore sempre presente: verificheremo se Ronconi si impegna a rispettare le nostre richieste".

Ayassot (Pci): "Sarà compito di Ronconi, oltre che del presidente e del consiglio, proseguire sulla via della crescita con una grande attenzione ai problemi amministrativi".

Ma «La Stampa» si era da tempo impegnata in una campagna anti-Gregoretti, mentre nei corridoi si sussurrava che proprio il critico teatrale della "Stampa" fosse uno dei candidati alla direzione. Proprio Guido Davico Bonino, lo stesso 20 dicembre, s'incarica di "consigliare" Ronconi e i suoi "grandi elettori":

"La scelta di Luca Ronconi alla guida dello Stabile (a parte la metodologia decisamente sbrigativa con cui è stata operata) è, sotto il profilo del prestigio e sotto quello artistico, ineccepibile. Dopo Giorgio Strehler, Ronconi è il migliore regista che l'Italia possa vantare, decine di spettacoli di prosa e di lirica, a teatro e in televisione, stanno lì a testimoniarlo: e l'ultimo è una produzione dell'ente di cui ha da oggi assunto la direzione, quella Mirra che rivedremo in primavera. E certo, dunque, che gli allestimenti ch'egli realizzerà per il pubblico torinese saranno del più alto livello, qualunque giudizio se ne dovrà dare, partitamente: e contribuiranno a restituire allo Stabile molta della credibilità perduta. Ma lo Stabile stesso ha un bisogno urgente anche di un direttore-manager, di un Riorganizzatore aziendale, di un promotore di nuovi, vitali contatti al più alto e al più basso livello, a Roma come all'estero, in città come in regione; e ho molti sinceri dubbi che Ronconi sappia e voglia e abbia soprattutto materialmente il tempo (lui che passa dodici ore al giorno nel buio della platea, a rifinire senza sosta uno scambio di battute tra due suoi interpreti) di occuparsi di siffatte questioni. Per cominciare, tra Scala e Audac, tra un Oberon di Weber e le Tre sorelle di Cechov per il circuito regionale umbro, per alcuni mesi non avrà letteralmente modo di stare al tavolino, nel suo ufficio di piazza Castello. Ma anche quando avrà messo radici in sede, non lo vediamo proprio discutere al telefono con impresari pubblici e privati su anticipi e percentuale d'incasso, o condurre sfibranti riunioni sindacali, o tentare di migliorare i pessimi rapporti tra teatro e università, o aprire il mai aperto dialogo con entità culturali locali e con forze teatrali minori: o anche, semplicemente, dar nuovo respiro ad altri settori dello Stabile, come quello ragazzi, che vivono unicamente della passione e dell'ostinazione dei singoli. Se (sto facendo un'ipotesi fantascientifica) Strehler andasse a dirigere il festival di Salisburgo e invitasse Ronconi a succedergli, queste mie osservazioni non avrebbero alcun senso, perché nei piccoli uffici di via Rovello lavora una compagine di quadri aziendali coi fiocchi, esperta d'ogni problema, votata al lavoro fino all'abnegazione. Sono stati tutti allievi (qualcuno è stato famigliare) del più grande direttore-manager del teatro italiano, Paolo Grassi. A Torino Grassi non l'abbiamo avuto mai: pretendere d'improvviso che Luca Ronconi vi si reincarni, ripensando da capo struttura, mansioni, funzioni, finalità dello Stabile (e il tutto in due anni, nelle pause tra una prova e l'altra) è, a voler essere benevoli, una candida utopia".

(A proposito del "miglior regista italiano dopo Strehler": nel presentare la stagione '88-89, gestione Gregoretti, lo stesso Davico Bonino definiva Ronconi "il nostro più creativo regista", «La Stampa», 22 luglio 1988).

A questo punto, l'ex direttore Gregoretti poteva forse risparmiare i suoi illuminati consigli?

"Per alcuni mesi lo affiancherò nella direzione e gli ricorderò che mi hanno sempre rimproverato di non andare alle prime, di non curare i rapporti importanti, di boicottare quelli con l'università, sebbene fossero di fatto inesistenti, ma credo che dovrà soprattutto stare attentissimo al bilancio". (da un'intervista di Franco Garnero, «Il Giorno», 22 dicembre 1988)

[...]

Pochi mesi più tardi, Ronconi presenta il programma della sua prima stagione da direttore, con scelte indiscutibilmente innovative: tre testi del Novecento (Besucher di Botho Strauss, Strano interludio di O'Neill e L'uomo difficile di Hugo von Hofmannsthal); la coproduzione - per Besucher - con un teatro privato, l'Eliseo; e il tentativo di lavorare con un gruppo d'attori il più possibile "stabile".

Besucher sarà coprodotto al cinquanta per cento dal teatro Eliseo. E la prima volta che lo Stabile collabora con un teatro privato. E stato scelto l'Eliseo, dice Ronconi, perché è il teatro che meglio e più degli altri ha lavorato in questi ultimi anni, raggiungendo una quotazione artistica e organizzativa che ci permette di rallegrarci dell'alleanza. Il secondo spettacolo, Strano interludio, costituisce un impegno specialissimo.

Dice Ronconi:

"Da tempo, da molte parti e non sempre a torto si rimprovera al teatro italiano di non preparare i ricambi per il teatro di domani e di non cercare, fra le giovani leve di attori, quelli che dovranno rimpiazzare i validissimi di oggi".

E allora, per riproporre quest'opera in nove atti che mancava da una quarantina d'anni dalle nostre scene, Ronconi sceglierà una compagnia di giovani che, la prossima estate, seguirà un lungo seminario di studio in Umbria. Lo scopo è lavorare sui tempi lunghi (indispensabili a ogni teatro degno di questo nome) e prefigurare quella compagnia stabile a cui Ronconi tiene moltissimo, nella quale i giovani si affiancheranno alle leve più mature in un laboratorio permanente. Questa compagnia avrà la sua prima utilizzazione nell Uomo difficile. Questi tre spettacoli non sono il programma della prossima stagione, ma un frammento, anche se impegnativo e centrale." Osvaldo Guerrieri (da «La Stampa», 13 maggio 1989)