Latina

Spettacolo mai realizzato, ma iniziato a provare in Umbria nel 1982.

La preparazione dello spettacolo era già giunta alla messa a punto dei costumi, affidati a Walter Albini, di cui restano i disegni.


Foto / Bozzetti / Video

Le parole di Luca Ronconi


«Latina», il thriller sudamericano l’avevamo già messo in prova, in Umbria. «Latina» era il nome di un quartiere e, siccome si svolgeva in America Latina, i personaggi cominciavano subito a parlare in spagnolo. Ma parlavano in spagnolo anche perché erano persone che ormai avevano dimenticato l’italiano. Il clima era quello di un vero e proprio giallo con dei seviziatori e delle spie. A quei tempi era forte il ricordo di un film di Costa-Gavras, «L’amerikano», che aveva furoreggiato: qualche cosa veniva da lì, ma eravamo anche influenzati dai reportage giornalistici, dalle cronache politiche. Per «Latina» avevo già pensato a uno spazio: lo spettacolo si sarebbe svolto su quattro fronti, con il pubblico in mezzo. Una pianta simile a una sala cinematografica, anche per via del tipo di racconto, da film dell’orrore, figlio di quegli anni, ma senza una precisa spinta politico-documentaria: solo fantapolitica, fantapsicologia, con qualche punta di grottesco. Al centro della vicenda un personaggio psicopatico che, da un ospedale psichiatrico nel quale si trova internato, dirige l’attività dei suoi adepti. «Latina» nasceva da un interessamento reale nei confronti di una drammaturgia nuova che mi sembrava allora (e continua a sembrarmi) escludere il concetto di autore. Com’è possibile, infatti, costruire qualcosa di nuovo su un presupposto vecchio? Un testo o è un classico o è l’annotazione di un’esperienza; o ce la fa a diventare classico, e dunque testo, oppure non ce la fa. Non posso pensare, insomma, all’autore come a un signore che, stando a casa sua, scrive un testo, perché allora non avremmo mai una drammaturgia contemporanea, ma una drammaturgia d’argomento contemporaneo. Latina assomigliava anche a «Brazil»: torture, incubi, letti... Le due figure centrali erano un padre e una figlia che vanno per il mondo combinando disastri: il padre consapevolmente, la figlia inconsapevolmente. Un po’ come un medico e un suo assistente, un boia e il suo aiutante. Lo spettacolo non è mai andato in scena, perché gli interpreti che avevo scelto per il ruolo del padre, prima Piero Di Iorio, poi Pierre Santini, erano scappati dopo quindici giorni perché non avevano fiducia nella cosa. Ma c’era anche un altro motivo più prosaico: avevamo trovato del denaro, ma ci siamo resi presto conto che non bastava e che continuare sarebbe stato un suicidio.
«Luca Ronconi. Prove di autobiografia»
a cura di Giovanni Agosti (Feltrinelli, 2019), pp. 346-348