La Torre (tv)

Trasmesso il 21 aprile 1979


Rassegna Stampa

Dal Patalogo 2


I principi ispiratori dello spettacolo rimangono intatti nella ripresa televisiva, che stavolta non vuole essere una documentazione di una rappresentazione teatrale, né una trasposizione, ma è nata contemporaneamente e nella stessa scena, anche se seguendo criteri stilistici diversi. Va ricordato tra l'altro che le riprese hanno avuto luogo in due tempi, prima e dopo dell'andata in scena. Curiosamente scompare quasi del tutto nell'edizione televisiva il contenitore del bianco salone di Würzburg, che era stato pensato all'origine anche per un ossequio alle regole di una verità cinematografica, in modo di essere verosimile, mostrando al contempo un carattere concettualmente finto e convenzionale. Il biancore degli stucchi s'impone come immagine di partenza, ma presto la "camera" lascia ogni preoccupazione di situazione ambientale per inseguire in lunghissime sequenze i personaggi visti generalmente in primo e primissimo piano, concedendo pochissimo spazio all'alternanza dì campi e controcampi, con un ritmo di apparizioni e sparizioni, tra accessori scenici significativamente allusivi che corrisponde al succedersi delle battute e al girar delle pagine del copione, come nella precedente Bettina goldoniana di Ronconi. Ma mentre là le sequenze prevedevano un ininterrotto cammino in avanti, qui, giovandosi ancora spesso dell'artificio dì moltiplicare nell'ambiente riproduzioni degli stessi oggetti scenici, da visitare in successione, il movimento degli attori, il gioco delle entrate e delle uscite gira significativamente in tondo, col testo, arrivando all'esaltazione nel duplice confronto delle ultime due scene tra il re Basilio e il Grande Elemosiniere, e tra il re Basilio e il figlio Sigismondo. Il traguardo più chiaramente raggiunto dall'edizione televisiva è qui, col supporto della rete divisoria prima e del pavimento degli specchi poi, previsti dalla geniale scenografia di Gae Aulenti, nella ricerca dì un'identità condotta tra due personaggi che in fondo riassumono una stessa persona, ma che arrivano nel finale ciascuno a sdoppiarsi. Il risultato in definitiva non è un recupero ma la frantumazione dell'identità, secondo la linea sinuosa e sofferta di Hofmannsthal. Mentre la macchina non conosce arresti nel suo girovagare nervoso fino alla schizofrenia la recitazione conserva le lentezze, la rarefazione e la pluralità di ritmi dell'impostazione teatrale, conferendo a questa gran messa funebre un andamento di solennità dreyeriana e acquistando altresì almeno per questo punto di vista il significato di documentare con preziosa precisione uno dei più grandi avvenimenti teatrali degli ultimi anni.
Franco Quadri